Chiede alla classe dirigente il «coraggio di dire la verità al Paese», altrimenti «rischiamo di bruciare generazioni di politici che illudono, "vendendo" cose non realizzabili». E invoca «chiarezza assoluta sul Fisco, riprendendo subito in Parlamento la delega per la riforma, perché la mancanza di certezze in questa materia allontana gli investitori e spaventa i cittadini». Davanti al delicato snodo istituzionale che il Paese sta vivendo Enrico Giovannini ci dispensa le sue riflessioni da una duplice visuale: ai quasi 4 anni di presidenza dell’Istat ha sommato la recente esperienza fra i "saggi" del Quirinale.
Il Paese è messo davvero così male?Il bollettino è obiettivamente molto complicato. Siamo in una recessione che fra il 2008 e il ’12 ci ha fatto perdere più di 8 punti di Pil, il quale in soli 5 anni è stato riportato indietro di 12 anni, al 2000. Abbiamo circa 3 milioni di disoccupati e 3 di inattivi che non cercano lavoro, ai quali vanno poi affiancati i 2,2 milioni della cosiddetta
Neet generation, i giovani che non studiano e non lavorano. Siamo indietro rispetto a tanti degli obiettivi che l’Europa si è prefissata per il 2020. È una crisi che sta colpendo duro il sistema produttivo, gli individui, le famiglie.
È un quadro così negativo?Non per tutti, non per quegli italiani - e sono milioni - che conservano il lavoro, non sono andati in Cig e hanno visto rinnovato il contratto, o lavorano in imprese esportatrici che vanno bene. Ma per tutti sono cresciute le insicurezze, che hanno effetti anche economici. Lo sanno bene le imprese che hanno bloccato i piani d’investimento: magari dovrebbero farli per innovare, ma preferiscono rinviarli. È l’immagine del Paese sospeso, come su uno strapiombo: chi è sull’orlo è paralizzato, chi sa di non esserlo non si muove per il timore di finirci.
E la politica gioca la sua parte?Dal blocco della politica deriva una componente psicologica aggiuntiva. Che però - si badi bene - non è solo italiana: anche le prossime elezioni tedesche producono un blocco. Tanto che c’è chi ritiene che, dopo settembre, verranno avviati dei negoziati per riforme profonde nella Ue. Per questo, come abbiamo sottolineato nel testo consegnato a Napolitano, urge «rimetterci in moto». Altri Paesi si stanno già attrezzando, anche noi dobbiamo arrivarci con una chiarezza di visione della classe politica. Anche perché, vista dall’estero, l’Italia resta un grande mercato: sono le incertezze del Fisco e della giustizia, le rigidità dei mercati dei prodotti e la bassa efficacia della P.a. ad allontanare gli investitori.
Serve un patto fiscale fra Stato e contribuenti?Anche su questo siamo stati molto netti nel documento dei saggi: un primo segno si potrebbe dare sul ddl di delega fiscale che, dopo la scorsa legislatura, si può definire in breve tempo, anche un mese. Al suo interno c’è tra l’altro un meccanismo per stimare ufficialmente l’evasione fiscale, cosicché i proventi da essa derivanti vanno restituiti ai contribuenti onesti. E poi, appunto, norme certe: è dannosa l’incertezza continua sull’Iva - sale o no? -, come sull’Irap.
Cosa consiglia alla politica?Di dire la verità sulle condizioni del Paese. È duro farlo, ma è illusorio "vendere" progetti che non potranno essere realizzati. È meglio puntare su interventi più tecnici, magari meno eclatanti, ma utili per dare il messaggio che questo Paese un futuro ce l’ha, anche se si è giovani.
A cosa pensa, a esempio?Penso al casellario degli assistiti dei vari enti, fondamentale per evitare sovrapposizioni e far sì che gli aiuti finiscano veramente ai bisognosi, perché non abbiamo soldi da buttare. Una banca-dati simile era prevista presso l’Inps dal 2010, ma ancora non c’è. E sarebbe utile anche in vista di un eventuale reddito minimo: non so se è fattibile, ma è un tema assolutamente meritorio di essere approfondito.
Altre ipotesi?Penso al servizio civile. Un’ipotetica versione obbligatoria avrebbe un costo economico ingente, certo, ma forse inferiore al costi di tenere inattivi quei 2,2 milioni di ragazzi che non fanno nulla. Sono miliardi di capitale umano che sprechiamo! In Francia, a esempio, esiste un servizio non obbligatorio, ma molto orientato alla formazione. Da noi potrebbe servire anche a contrastare tassi di abbandono scolastico che sono molto alti: del 15% per gli italiani e del 44% per i figli degli immigrati. Quali segnali diamo ai giovani meritevoli se, invece, i fondi statali per il diritto allo studio sono stati ridotti da 150 milioni a circa 15 l’anno nel biennio 2013/14, a meno di un decimo quindi?
Le imprese lamentano di essere state abbandonate dallo Stato. Ma hanno colpe anch’esse?Sì. C’è un dato che mi colpisce: la mobilità intra-settoriale delle aziende italiane negli anni Duemila è scesa rispetto agli anni Novanta. È un dato sorprendente, avvenuto proprio mentre il mondo accelerava il cambiamento. Il fatto è che con i bassi tassi d’interesse e lo sviluppo della finanza le nostre aziende si sono accontentate di utili facili e, nei 10 anni passati di bassa crescita, come tendenza generale non hanno investito in capitale umano o non hanno sfruttato la rivoluzione informatica. E il nostro sistema basato sul controllo familiare ha mostrato la corda: dalla nostra indagine sui vincoli all’export risulta che un 20% lo indica nelle scarse capacità manageriali, un altro 20% nelle dimensioni piccole.
Sono colpe pesanti?Il fatto è che c’è una quota importante di imprese che ancora sopravvive solo grazie all’evasione fiscale o a rapporti opachi con la Pubblica amministrazione. Nella quale, peraltro, ancora non si registra quell’aumento dell’efficienza e dei servizi avuto in alcune realtà fra cui - mi lasci dire - l’Istat. Ma questo Paese o lo cambiamo tutti insieme o resterà caratterizzato da uno sviluppo frastagliato. Evolvere, invece, è possibile. Lo hanno dimostrato quelle imprese che in questi anni hanno puntato sull’export. Stanno aumentando le ditte che si orientano di più verso l’estero, consce del fatto che, quando riprenderà anche la domanda interna, ne avranno un beneficio netto nel medio termine.
Uno dei pochi campi dove la politica sta agendo è sui tagli ai suoi costi di funzionamento. Cosa ne pensa lei che nel 2012 presiedette, al riguardo, una commissione che non diede esiti?Penso che si sta facendo quello che noi avevamo indicato nel rapporto, cioè che chi deve decidere (come il Parlamento) poteva farlo usando i nostri dati, senza aspettarsi che una media aritmetica (basata su dati incompleti) sostituisse una decisione di valore.
Ma se dovesse indicare una priorità fra tutte?Tra le varie proposte contenute nel nostro documento, vorrei indicare l’Expo del 2015. Avremo un flusso di turisti di decine di milioni: come ci stiamo preparando? Serve un comitato interministeriale presieduto dal presidente del Consiglio, che coinvolga tutti per sfruttare un’occasione unica.
Quanto pesa nella crisi il fattore delle basse nascite?Pesa, perché con l’innovazione tecnologica servono sempre meno lavoratori per avere la stessa produttività. Un maggior numero di individui favorisce invece i consumi. Per questo occorre rivedere l’attuale sistema fiscale basato sul reddito individuale, per cui il single è avvantaggiato rispetto alla famiglia plurireddito. Non dico il quoziente familiare, perché presenta il difetto di disincentivare il lavoro delle donne, che invece va accresciuto. È un altro tema da approfondire.