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Intervista. Piketty: «Ue attenta, vedo troppe ipocrisie»

Eugenio Fatigante martedì 2 giugno 2015
«Ipocrisia». È forte la parola che ricorre più spesso nei ragionamenti di Thomas Piketty, economista francese, 44 anni, sbarcato come un’attrazione (file lunghissime per sentirlo) al Festival "dello scoiattolo", sapientemente orchestrato da un decennio da Tito Boeri. È quella che l’autore del monumentale saggio Il Capitale nel XXI secolo (Bompiani) rinfaccia ai leader politici degli stati europei e all’Europa in genere, nel manifestare i timori per gli effetti («incalcolabili») di un’eventuale uscita dalla Grecia dall’euro.Dove la vede questa ipocrisia?Nei leader della Ue, inclusi Renzi e Hollande. Parlano troppo e fanno poco. Ho sentito che il premier italiano promette di fare «casino» in Europa da settembre. Ma perché aspettare? E guardi che non c’è solo il tema dell’austerità. Vitale è anche la finta lotta ai paradisi fiscali. Basti vedere il caso Juncker, rimosso con troppa facilità: non è che il presidente della Commissione se la può cavare scusandosi per il passato.Vuole dire che le istituzioni Ue non sono credibili?È così. E tutto questo produce effetti che si avvertono nel quadro politico dei singoli Stati. La ricetta dell’austerità alimenta il ripiego nazionalista e anti-Ue, che si manifesta sempre più forte a ogni elezione perché diventa una tentazione per tutti coloro che si sentono minacciati e impotenti di fronte ai mercati e alle conseguenze delle crisi.E la Germania?Anch’essa è pervasa d’ipocrisia. Berlino predica misure per rimettere in carreggiata i conti greci, mentre le banche tedesche sono ben liete di continuare a ricevere bonifici dai contribuenti greci super-ricchi che fuggono per effetto di quelle misure.Non sono misure necessarie per contenere il debito pubblico di Atene?Sul debito, poi, i tedeschi hanno un livello incredibile di amnesia storica. Nel dopoguerra, nel 1953, hanno beneficiato loro stessi di una cancellazione del debito che superava all’epoca il 200%. Oggi, con un debito importante – in rapporto al Pil del Paese – come quello greco, ci vuole per forza una sua ulteriore ristrutturazione. E occorre pensare a mettere in comune tutti i debiti sovrani della zona euro. Gli accordi del 2012 con Atene prevedono un gigantesco avanzo primario, pari al 4% del Pil, per molti anni a venire. Ma vanno rinegoziati perché non si può condizionare così pesantemente il destino dei giovani greci per colpe che ricadono sui loro padri.Perché parla di condizionamenti?Do un paio di dati, ma estremamente significativi: il budget totale di tutte le università in un Paese come la Grecia – ma è così anche in Italia – è di appena l’1% del Pil. Per il progetto Erasmus spendiamo nella Ue appena 2 miliardi, contro oltre 200 per pagare gli interessi sul debito. Insomma, i programmi validi ci sono, ma sono troppo piccoli a fronte delle esigenze finanziarie che vengono messe in primo piano al loro posto. Mi chiedo: ma quale tipo di Europa stiamo costruendo, se non investiamo sul futuro delle giovani generazioni?Cosa serve allora?In Europa si è cercato di aggirare la democrazia con delle norme automatiche che hanno fissato degli obiettivi di bilancio. E poi si è confidato, in ritardo, nella politica monetaria della Bce. È ora che i leader europei dimostrino di essere realmente tali mettendo in campo delle proposte nuove, per arrivare a una maggiore condivisione politica. E questa l’arma migliore per combattere le tentazioni autarchiche.Quindi lei è preoccupato per un eventuale default greco?L’eurozona è minata ormai da 5 anni da una crisi di fiducia troppo lunga e che si sta ingigantendo sempre più. La cosiddetta Grexit potrebbe determinare la morte dell’euro non tanto per l’impatto in sé – quella greca è un’economia piccola –, quanto per l’effetto psicologico: a ogni elezione, tutti si chiederebbero quale sarebbe il prossimo Paese a uscire.Come il nostro ministro Padoan, anche lei chiede quindi "più Europa", al contrario?Dev’essere così. Ritorno al fisco: un’Europa unita non può permettersi zone di opacità. Serve una tassa uguale almeno per le multinazionali. Che trovano sempre il modo per pagare meno tasse, mentre il carico maggiore va sulle Pmi. Ma quando il tasso di remunerazione del capitale supera a lungo il tasso di crescita dell’economia, come avviene ora, si crea una situazione di squilibrio che accentua le disparità fra singoli e fra Stati.Ma non è proprio il carico di tasse uno dei freni maggiori alla crescita?Per questo serve un’impostazione unitaria realmente europea, con un’imposta progressiva sul patrimonio che tassi allo stesso modo i patrimoni finanziari e quelli immobiliari, evitando al contempo "fughe" fiscali verso altri Stati e casi di frode e di evasione. Così si otterrebbe una maggior redistribuzione delle ricchezze.La sua è una visione anche etica?L’economia di mercato è un qualcosa che si costruisce per gradi, attraverso compromessi e visioni sociali differenti. I suoi effetti dipendono da "cosa" ci mettiamo dentro. Ma pensare di avere un’economia di mercato senza etica e senza politica è un’illusione.