Intervista. «I lavori domestici ancora delle donne. Ma tra gli under 35 c'è una svolta»
Sara Nanetti
Per la statistica è la conferma piuttosto attesa di un «disallineamento» tra generi. Nella realtà è mamma che fa il bucato, mamma che lava i pavimenti, mamma che fa la polvere. Cucinare? Sì, lo fa sempre mamma, ma nel tempo libero papà ci si mette (e un po’ si diverte anche). Fare la spesa? Di ritorno dal lavoro a volte ci pensano gli uomini (anche se poi le borse le svuota mamma). Ma quando si tratta di carichi domestici «in senso qualitativo», quando cioè «guardiamo alla tipologia delle attività domestiche, la disparità tra donne e uomini è ancora evidente» spiega la ricercatrice e sociologa dell’Università Cattolica Sara Nanetti, che ha curato il Report Cisf.
Dunque questa disparità emerge anche nel vostro studio. Perché è così difficile osservare un cambiamento su questo punto?
Il Report in realtà porta con sé una cattiva e una buona notizia. La cattiva è che lo sbilanciamento resta. E che ha ancora una connotazione fortemente geografica: al Sud e nelle isole (non è una novità) le attività domestiche in 7 casi su 10 sono appannaggio delle donne. Nel campione scelto per l’indagine, per altro, abbiamo deciso di eliminare le famiglie monoreddito proprio per evitare che il dato “disturbasse” il risultato finale: è infatti molto più facile che dove è solo l’uomo a lavorare sia la donna quella più coinvolta nel lavoro domestico. Il risultato non cambia: tocca sempre alla donna. La buona notizia però c’è e ci suggerisce degli indirizzi di azione per il cambiamento: tra gli under 35 la forbice si restringe fortemente, non portando ancora a un equilibrio, cioè a un 50 e 50 nella divisione dei carichi, ma quanto meno avvicinando molto l’apporto degli uomini a quello delle donne. I più giovani, in buona sostanza, sono già protagonisti di una svolta nel senso dell’equità: ecco perché è necessario insistere con le nuove generazioni, provare a scardinare lo stereotipo di genere su un piano generazionale trasmettendo ai più giovani nuovi modelli culturali.
La casa, dal punto di vista di chi la abita e deve portarla concretamente avanti, può dunque non essere solo un “luogo sicuro” di rifugio e serenità…
E infatti non lo è. Questo è un elemento forse meno atteso, su cui i risultati dell’indagine ci invitano a riflettere: la casa, cioè, viene percepita anche come un luogo di solitudine, di isolamento, di sofferenza. La parola utilizzata più spesso, nel corso delle interviste qualitative che abbiamo somministrato al campione, è “prigione”. Nel concorrere a questa immagine entrano diversi fattori: i principali sono quelli economici e sociali, chi vive in condizioni di povertà e di fragilità sperimenta più frequentemente questa sensazione. Ed è come se in casa esplodessero le difficoltà che si riscontrano anche all’esterno, in un legame tra dentro e fuori che altri dati della nostra ricerca evidenziano bene: più alto è il capitale sociale di un individuo, vale a dire la quantità e la qualità di relazioni che intrattiene fuori, meglio si vive anche in casa, con relazioni più stabili; più basso è quel capitale, peggiore sarà anche la quotidianità tra le mura domestiche. Anche questo ci offre un indirizzo di azione per favorire un cambiamento: agire sulle reti sociali ci consente di impattare anche sulle dinamiche familiari, private, domestiche.
Una curiosità: nel report emerge un ruolo inedito degli animali domestici nelle relazioni familiari. Può spiegarlo?
Due sono i punti interessanti in questo senso. Il primo: il Report smentisce il fatto che la presenza di un animale domestico si leghi alla scelta si non avere figli. Al contrario: è proprio nelle famiglie con figli che si avverte con più impellenza la necessità di averne uno. Abbiamo poi osservato un significativo incremento degli animali domestici soprattutto quando manca una delle due componenti genitoriali, ovvero nelle famiglie monoparentali con figli.