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Intervista. Cristina Cattaneo: «Dare un nome ai migranti morti mi ha cambiato la vita»

Paolo Lambruschi lunedì 19 agosto 2024

Cristina Cattaneo (di spalle) durante le operazioni di riconoscimento dei cadaveri dei mille migranti morti nel naufragio del 2015

Guardando nelle tasche dei migranti annegati non solo si ricostruiscono le loro storie e le identità perdute. Si restituisce loro anche la dignità di persone e si difendono i diritti dei vivi. La conoscenza resta una delle poche vie per rompere l’indifferenza che avvolge le tragedie dell’immigrazione e la scelta di Cristina Cattaneo da molti anni è quella di unire impegno scientifico e civile. Scelta che ha avuto una svolta decisiva nell’estate del 2016.

La nota docente di medicina legale milanese è da tempo riferimento di procure e investigatori per casi come quelli di Yara Gambirasio, Elisa Claps e Stefano Cucchi, per tanti cold case e per le consulenze per le violenze su donne e minori. Ma è stato nei tre mesi estivi di otto anni fa che la direttrice del Labanof (il Laboratorio di antropologia e odontologia forense della Statale) e da due anni coordinatrice del Musa – Museo universitario delle scienze antropologiche, mediche e forensi per i diritti umani – ha incontrato il dramma dell’identità perduta dei migranti morti durante i viaggi della speranza e ha valorizzato il ruolo della scienza nella lotta alla violenza e nella tutela dei diritti umani.

Lei stessa, nata a Casale Monferrato nel 1964, si definisce migrante poiché per il lavoro del padre ingegnere ha studiato e vissuto tra Italia, Canada e Gran Bretagna. Alle spalle ha una formazione articolata. Una laurea in biologia in Canada, poi un master in osteologia, paleopatologia e archeologia funeraria e un dottorato in antropologia in Gran Bretagna quindi la laurea in medicina e chirurgia con specializzazione in medicina legale all’Università degli Studi di Milano. «Qui – ricorda – ho conosciuto Marco Grandi che aveva creato il Labanof. Ho imparato che riconoscere un corpo o uno scheletro di un cadavere è tutelare i suoi diritti».

Perché fu decisiva per lei l’estate del 2016?

Dopo il recupero di alcuni corpi con diverse spedizioni, il governo Renzi decise con un’operazione complessa di ripescare il peschereccio di 20 metri partito dalla Libia con a bordo oltre un migliaio di migranti stipati e affondato nel Canale di Sicilia al largo di Malta il 18 aprile 2015. Morirono mille persone in quella che viene considerata la peggior tragedia dell’immigrazione nel mar Mediterraneo. Il prefetto Vittorio Piscitelli, all’epoca commissario straordinario del governo per le persone scomparse, chiese la consulenza del Labanof per identificarli. Avevamo già fatto un tentativo con le vittime dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 a Lampedusa, volle creare una task force per trattare il relitto come se – disse – fosse stato quello di un aereo pieno di italiani. Quelle parole mi colpirono. Era partita l’operazione Melilli, dal nome del molo in cui il barcone venne portato e dove lavorammo tutta l’estate, insieme a colleghi di altre 12 Università, ospiti della Marina Militare. Mi sono trovata in un contesto nuovo su quel pontile della Nato. Ho vissuto tre mesi lì e tra le tende della protezione civile, una cittadina creata per aiutare questa gente. Ho visto un’Italia che ha fatto qualcosa che nessun altro Paese aveva mai fatto. Giorno dopo giorno, trovare la vita nelle tasche di vittime irriconoscibili dopo un anno trascorso a 400 metri sotto il mare mi ha cambiata. È stata un’esperienza tragica trovarsi davanti a questo doppio affronto: primo, la morte di persone giovani affogate senza avere una possibilità di scampo e poi l’indifferenza. Su quel barcone c’erano ragazzi che venivano in Occidente a studiare e cercare lavoro e di cui le famiglie disperate non sapevano più nulla.

Cristina Cattaneo durante l'inaugurazione del Museo di scienze antropologiche - Ansa

Come il caso di cui lei ha parlato nel libro Naufraghi senza volto del 14enne del Mali con la pagella cucita nel giubbotto dalla mamma perché i voti presi a scuola potevano mostrare il suo valore.

Perciò è giusto restituire a lui e a tutti i morti in mare l’identità e per farlo è necessario lottare. Ancora oggi non riesco a parlare senza commuovermi della bellezza di questa decisione italiana.

Come si può bucare quello che il Papa chiama il muro dell’indifferenza verso le tragedie dei migranti?

L’umano è indifferente in questo periodo. Il milieu culturale è particolarmente povero. Ma ricordo che quando presentavo il libro una signora mi si è avvicinata e mi ha detto che pensava che non dovessero partire, ma poi leggendo cosa avevano nei vestiti e nelle tasche aveva cambiato idea. Penso che razzismo e discriminazione siano figli dell’ignoranza. In ottica positiva ritengo l’educazione fondamentale. Far conoscere la storia di un orfano abbandonato senza un certificato di morte dei genitori è importante perché gli cambia la vita e rompe appunto il muro dell’indifferenza. È uno dei motivi per cui a Milano abbiamo deciso di far conoscere queste storie attraverso oggetti e parti di lettere che si portavano addosso.

Ma l’identificazione non è complessa e costosa?

Parlare di vivi e di morti è diverso. I migranti vivi vanno accolti ed è un procedimento più complesso mentre l’identificazione dei cadaveri è meno impegnativa, ma è fondamentale per i familiari. Va implementata perciò la legge 203 del 2012, ma il riconoscimento dei cadaveri dei migranti è un problema europeo e va creata una normativa Ue. Servono investimenti per creare banche dati internazionali dove confrontare il Dna. Con l’aiuto delle Ong, di Comitato 3 Ottobre, della Croce o Mezzaluna rossa e dell’Oim abbiamo dimostrato che si può e si deve agire nei Paesi di origine.

A quasi due anni dall’apertura come va il Museo universitario delle scienze antropologiche, mediche e forensi per i diritti umani?

Lo stiamo allargando per arrivare a 2.000 metri quadrati dedicati alla migrazione, al crimine e alla ricerca del passato. Abbiamo ricevuto migliaia di scuole in visita. L’ultima stanza in cui ci si svuota le tasche e si confronta il contenuto con quelle dei migranti colpisce molti.

Cosa insegna lo studio dei cadaveri del passato?

Spiega l’attualità. Una indagine sul Dna di Milano ad esempio insegna che una parte della cittadinanza è sempre stata migrante e che la città è un mix etnico. Comparando i segni della violenza di oggi con le epoche passate arrivano segnali allarmanti.

Cristina Cattaneo sul luogo del ritrovamento del cadavere di Yara Gambirasio - undefined

Ha fiducia nei giovani?

Sì, hanno menti pulite dai pregiudizi. Sono molto fiduciosa in questa generazione molto più empatica, noi invece siamo diventati disattenti. Da questa situazione possiamo uscire con l’educazione e cercando di cambiare cultura. Ad esempio, a Milano c’è un progetto per aumentare la presenza di medici legali nei pronto soccorso per cogliere tutte le vittime, anche quelle che negano di avere subito violenza. La medicina legale deve agire in fretta per tutelare la salute e fare prevenzione. Come in Francia dobbiamo ancorare i medici legali al territorio per lavorare con vivi e morti con posti di lavoro dignitosi.

C’è un progetto futuro che possa dare continuità all’estate del 2016?

La partenza di un corso di laurea in ambito umanitario nell’anno accademico 2025/26. Occorre formare professionisti in campo biomedico e antropologico che assistano il medico legale negli ambiti di guerra e che siano in grado di leggere il corpo per scoprire le torture. Penso sempre a quello che ho visto sui corpi di tanti minori stranieri non accompagnati.