Il regista di "Io Capitano". Garrone: «Migranti, un’ingiustizia che ci deve smuovere»
Regista sempre attento al taglio sociale, da “Gomorra” a “Dogman”, l’autore romano Matteo Garrone, 54 anni, sta vivendo in queste settimane un’esperienza particolare: la promozione del suo ultimo film “Io Capitano”, reduce dal Leone d’argento alla Mostra di Venezia (che sta coincidendo per i casi del destino con il riemergere, ormai periodico, di una forte crisi migratoria), lo sta portando in giro per tutt’Italia, dove la pellicola è oggi programmata in 256 sale. Un’esperienza che è, quindi, anche un toccare con mano come questa realtà sia vissuta in giro per il Paese. Lo sentiamo al telefono durante uno di questi spostamenti (oggi si saprà anche se sarà il candidato italiano all’Oscar 2024) e qualche giorno dopo l’esperienza unica vissuta giovedì scorso all’ombra della cupola di San Pietro, quando ha potuto far vedere il film a papa Francesco nella Filmoteca vaticana.
È stata un’esperienza unica?
L’incontro con Francesco ci ha regalato una gioia indescrivibile. Era la prima volta che lo incontravo. È chiaro che c’era una corrispondenza fra il messaggio del film e quello di papa Francesco, sempre pronto a mettere in luce le ingiustizie che vivono queste persone e a cui ho voluto dar voce.
Cosa vi ha detto il Papa?
Ha detto che erano immagini molto intense. Ci ha raccontato, parlando con Mamadou Kouassi, uno degli ispiratori del film, che anche la sua è stata una famiglia di emigranti e ci ha confidato che questo tema genera per questo in lui forti sofferenze. Ma, soprattutto, già dopo pochi secondi avevo l’impressione di parlare come con un amico, il Papa ha una capacità di mettere a proprio agio. Mi ha colpito dal primo sguardo l’impressione come se mi guardasse dentro.
Il suo è anche un film politico? E pensa che riuscirà a sensibilizzare davvero o finirà nel flusso delle tante immagini del fenomeno migrazioni?
È un film che mette in luce un’ingiustizia profonda che mina diritti fondamentali dell’essere umano. Questi giovani per trovare un lavoro degno e per muoversi devono rischiare la vita. Noi non comprendiamo che il diritto allo spostamento, quindi, è un nostro privilegio che viviamo come una normalità. Per questo mi piacerebbe che fosse visto nelle scuole, anche all’estero. Volevo raccontare una storia non dal punto di vista occidentale, ma da quello loro. Credo che serva a sensibilizzare una parte degli spettatori che oggi vedono i migranti solo come numeri e che si dimenticano che dietro di loro ci sono affetti, sentimenti, sensazioni.
Cosa pensa che si possa fare?
Non sono un politico, ma di sicuro bisogna rafforzare i canali di arrivo legali: è il modo di non mettere in pericolo le loro vite e anche di stroncare i commerci dei trafficanti.
Perché ha voluto trattare questo tema, già presente nei primi lungometraggi?
L’idea che mi ha spinto è che c’è una parte di queste traversate che ci resta ignota, non ne sappiamo nulla. Questo viaggio diventa allora di per sé un racconto epico: i migranti sono in fondo i maggiori portatori dell’epica contemporanea.
Come le è venuta l’idea?
Anni fa avevo visitato un centro d’accoglienza a Catania e Glauco, che lo guidava, mi aveva raccontato la storia di Fofana Amara, che a 15 anni si era ritrovato a pilotare nel Mediterraneo una barca con 250 migranti. Li aveva condotti in salvo in Italia e poi era stato arrestato come scafista, prima di espatriare in Belgio. Questo episodio ha continuato a ronzarmi in testa.
È vero che voleva trattare in questa chiave anche “Pinocchio”, suo film del 2019?
Sì. In un primo tempo avevo pensato a un Pinocchio africano: partiva dall’Africa per arrivare al paese dei balocchi. Poi avevo riflettuto però che la valenza simbolica era troppo forte e preferii restare più fedele all’originale. Il tema però è rimasto e mi ha bussato alla porta, per così dire. Ho cominciato a incontrare altri ragazzi e a sentire altre testimonianze e la storia ha preso forma.
Tratto caratteristico delle sue opere è quello di incrociare il realismo con aspetti simbolici, anche cruenti.
Vero. Sono abituato nei miei film a diffondere realismo, ma anche a dare loro un’astrazione fiabesca. Spesso tramite i sogni, necessari per raccontare le ferite dell’anima. “Io Capitano” è un classico road-movie, ma è anche un viaggio dell’anima, di chi parte da ragazzo lasciando a casa la madre e si ritrova all’arrivo come uomo fatto.
Quali sensazioni le sta dando questo tour promozionale attraverso l’Italia?
Ci sta ripagando le fatiche di tre anni di lavorazione. Devo riconoscere che un grosso merito va al protagonista Seydou Sarr, giovanissimo attore senegalese, che è riuscito a dare anche una grande spiritualità al personaggio. È una caratteristica che va dritta al cuore del pubblico, che ovunque in Italia risponde con grande partecipazione.
Si può dire che “Io Capitano” è il film a cui si sente più legato?
Sono legato a tutti i miei film, come è normale che sia. Non c’è dubbio però che questo abbia un taglio più trasversale e un impatto emotivo che trasmette una emozione più forte al pubblico. Quando entro in sala a fine film, capisco che stavolta si alzano tutti in piedi non per un dovere formale, ma perché realmente sono entrati in empatia con Seydou. Non mi era mai successo.