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Intervista. Granata: metodo-Trieste aiuta il Paese, bene la rete degli amministratori

Marco Iasevoli martedì 9 luglio 2024

«Chi è venuto a Trieste, un variegato mondo di donne, giovani, uomini impegnati nelle realtà associative, professionali, culturali di ogni parte d’Italia, ha fatto un’esperienza forte, per certi versi inaspettata. L’insistenza sul valore della democrazia, emerso da tante personalità autorevoli così come dalle tante buone pratiche nate dal basso, è rimbalzata sui media, anche fuori dal nostro Paese. Questo è un fatto politico che dovremo raccogliere». Elena Granata, componente del Comitato organizzatore e scientifico della 50esima Settimana sociale di Trieste, docente di Urbanistica al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia civile, è pronta, insieme ai colleghi, al gravoso compito della “restituzione”.

C’è una forte attesa delle “indicazioni operative”...

A Trieste abbiamo sperimentato un metodo e uno stile, condiviso alcune prospettive che saranno meglio precisate a inizio settembre. Dobbiamo uscire dalla logica un po' adolescenziale dell’attesa di percorsi già tracciati e prenderci cura subito delle reti di collaborazione che stanno nascendo in queste ore.

Il Comitato che ruolo avrà?

Ci siamo messi al lavoro per restituire quanto emerso dal percorso partecipato fatto dai delegati. Si tratta di circa 300 possibili progettualità. Insomma Trieste non è stata un gioco, ma un grande esperimento di apprendimento e di generazione di idee e proposte.

È stato fissato l’obiettivo di favorire il dialogo politico: cosa vuol dire? Molte attenzioni sono su questo punto.

Trieste ha sancito la fine della retorica del prepolitico: tutto è politica, ogni campo di impegno è campo politico, se sa tenere insieme fare e pensare, se diventa inclusivo e trasformativo della realtà.

La sensazione è che parlare di impegno diretto fa meno paura, ci sono meno “timidezze”. Come si fa ad accompagnare questo crescente desiderio di impegno?

Ora c’è bisogno di grande serenità e buonsenso per custodire l’energia genuina di dialogo che abbiamo sperimentato in queste giornate. Abbiamo compreso in modo nuovo che infinite attività nate dal basso hanno bisogno di risalire la filiera politica e intrecciarsi con le politiche locali e nazionali. Che le amministrazioni hanno bisogno di aprirsi ad un largo campo di attivismo e impegno, nella prospettiva dell’amministrazione condivisa, della coprogettazione, del coinvolgimento delle reti territoriali.

Da questo punto di vista, cosa potrebbe offrire la rete degli amministratori di ispirazione cristiana, che ha visto a Trieste un primo momento di incontro “autoconvocato” dagli stessi amministratori delegati alla Settimana sociale?

Intanto una premessa: qualcuno soffre di un riflesso pavloviano, ogni volta che vede un gruppo di cattolici che si incontra e dialoga con rispetto e ascolto, pensa che vogliano fare un partito. Forse non ha ancora smaltito la disillusione del passato o ha timore che qualcuno voglia mettere il cappello su una comunità di persone motivate e capaci, risorsa che nel mercato politico ha un valore immenso. E quindi si alzano le protezioni per “difendersi”. Ma se non si rischia e se non si dà fiducia si diventa irrilevanti ed è una prospettiva che da troppo tempo fa male al Paese.

Dove dovrebbe condurre questo «rischio»?

Le giornate di Trieste ci fanno già ben sperare. Ogni spinta a mettersi in rete, a costruire uno spartito, come in tanti ormai ripetono mutuando l’espressione di Piano B (il volume di Becchetti e altri, ndr), può fare la differenza. La rete di Trieste ha raccolto la necessità di un dialogo tra tutti i laici impegnati in politica, con opzioni partitiche diverse, non partendo da valori astratti ma da progetti comuni. Quando sei nato, non puoi più nasconderti. Continuare lungo la via del dialogo, organizzare la partecipazione, trovare linguaggi comuni e comuni vie d’azione mi pare l’unica opzione possibile.