Ecco che arrivano le donne. Lentamente si trascinano in una bolla di triste oscurità. Due sono in stato di gravidanza, 12 e 24 settimane, raccolte nella notte dal Canale di Sicilia, alla deriva su un gommone, soccorse dalla Guardia costiera, con altre decine di sventurati.Sguardi spenti, senza curiosità e occhi fissi sul Presidio sanitario di Lampedusa. Sarà per la stanchezza dell’odissea affrontata e chissà quando cominciata, ma nessuna di queste donne tradisce una smorfia che ci aiuti a capire se sono felici di avercela fatta. Forse è solo pudore. Forse.«Cosa devo dire? È povera gente e sono trent’anni che mi occupo di loro. Ho cominciato quando a Lampedusa non c’era proprio nulla. Solo la banchina di cemento al molo Favarolo dove questi esseri umani venivano sbarcati, dopo che avevano navigato in condizioni estreme, bevendo l’acqua del mare. Allora eravamo costretti ad assisterli per terra, poi ci fu il primo alloggio-container, e ora siamo ai giorni nostri con il Centro di prima accoglienza. Oggi, dal punto di vista medico sanitario, la situazione è decisamente molto migliore».A coordinare tutte le attività sanitarie, a garantire la salute sull’isola di Lampedusa, è il dottore Pietro Bartolo, e, ovviamente, anche i suoi collaboratori, del servizio sanitario nazionale.«Se nel passato queste persone migranti viaggiavano su barconi con grandi difficoltà e sacrifici di una traversata che poteva durare giorni, e venivano raccolti stremati da ipotermia, disidratazione, e da ustioni chimiche da carburante, e quando finalmente toccavano terra, per noi medici erano masse di pazienti che si riversavano al pronto soccorso – spiega il dottore –. Oggi con il fatto che vengono soccorsi prima, rifocillati e protetti, sono solo persone normali. Tutt’al più evidenziano patologie come le nostre: ipertensione, diabete e via. Il primo approccio sanitario avviene sempre al loro arrivo al Favarolo. Se dobbiamo approfondire certe situazioni li portiamo in ambulatorio, come le donne che ha visto. Se poi si presenta una situazione estrema di bisogno, in dodici ore posso ricevere tutto quello di cui noi medici abbiamo necessità».È successo ormai tantissimi anni fa, il dottor Bartolo ancora ricorda lo sbarco “numero uno”. Erano in tre, tunisini, si erano rifugiati in un albergo in costruzione. Allora si diceva: «Arrivano i turchi». Oggi le storie sono già decine di migliaia, e lui, Bartolo, le ha ascoltate proprio tutte, una ad una, visita dopo visita. Sono i numeri che parlano. Il dottore apre una cartella gonfia di documenti e legge: «Dal 1997, quando abbiamo iniziato a tenere un registro, a tutto il 2012, sull’isola sono passate 173.765 persone». Ma il fenomeno comincia molto prima di quel 1997 e il numero sfonda oltre i 200mila passaggi di migranti sull’isola. Tutti, uno dopo l’altro, visitati dal dottor Bartolo e dal suo team di collaboratori, attivo 24 ore su 24. E quando i numeri in un giorno sono tanti, come è accaduto durante la crisi del 2011, c’è di che diventare matti: «Capitò che in un solo giorno ci furono 18 sbarchi, non sapevamo più dove sbattere la testa».«Io sono l’unico medico, purtroppo, delegato a fare le ispezioni cadaveriche. E ancora vivo una tragedia di 3 o 4 anni fa, quando mi chiamarono per l’ispezione di 25 cadaveri di ragazzi, trovati messi a montagna nella stiva di una nave. Entrai attraverso la botola e fui costretto a camminare sui loro corpi. Erano morti per mancanza d’aria, ed erano stati pure picchiati da quei “malacarne” di trafficanti, per impedire a quei ragazzi di uscire dalla trappola mortale - racconta il dottore -. Mi fa rabbia sapere che si muore così. Bisogna fare qualcosa, bisogna dire basta a questo traffico di pezzi di carne che non fa che ingrassare le organizzazioni criminali che stanno dietro la tratta umana. Ovunque sento dire che i migranti sono una risorsa, allora perché non li mettiamo nelle condizioni umane di poterci raggiungere evitando questo balletto di spese inutili, e facendoli soffrire di meno?».Da cupo che si è fatto, al dottore Pietro Bartolo torna un sorriso quando gli chiediamo cosa prova nel sentire parlare di “emergenza Lampedusa”: «Un fenomeno che vive da decenni non possiamo più chiamarlo emergenza. È qualcosa che si è cronicizzato. C’è bisogno di una medicina, che sia vera».