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Scenari. Partiti e mai più ritornati: in dieci anni l'Italia ha perso 87mila cervelli

Thomas Usan venerdì 18 ottobre 2024

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Sono 132mila i cervelli in fuga dall’Italia registrati nell’ultimo decennio. Il dato emerge dal rapporto Istat presentato a “Statistica senza frontiere”, evento organizzato a Treviso e dedicato agli appassionati di numeri legati ai fenomeni del mondo. Secondo il rapporto, dei 132mila giovani laureati italiani, tra i 25 e i 34 anni, emigrati tra il 2013 e il 2022, solo 45mila sono rientrati nel nostro Paese. Questo ha portato a una perdita netta di oltre 87mila giovani risorse qualificate, l'equivalente della popolazione di una città, per l’appunto, come Treviso.

«Il trend in aumento degli espatri durante il decennio è conseguenza anche di un effetto indotto dalla Brexit – specifica Francesca Licari, ricercatrice Istat –. Il Regno Unito è infatti la principale destinazione degli espatri dei giovani istruiti. Il nuovo assetto politico (che ha portato a norme più stringenti per immigrati, ndr) potrebbe aver accelerato le pratiche di iscrizione in Aire (Anagrafe degli italiani residenti all'estero) di coloro che già vivevano nel territorio britannico al fine di confermare il proprio settled status (con una tassazione minore rispetto a tutti coloro che sono arrivati dopo il 2021, ndr). Esaurito l’effetto Brexit, e dopo lo shock pandemico, gli espatri dei giovani talenti si attestano su livelli più contenuti rispetto a quelli osservati prima della pandemia». Il capitale umano, emigrato nel corso del decennio, era in possesso di una laurea triennale nel 22% dei casi, di una magistrale (o equipollente) nel 72% e di un master o dottorato nel 6%.

Per dare una geografia al fenomeno, i giovani talenti si dirigono prevalentemente, come già precisato, verso il Regno Unito (28mila espatri nel decennio), in Germania (18mila), in Svizzera (12mila), in Francia (11mila). Tra le mete extraeuropee prevalgono gli Stati Uniti (7mila): partono soprattutto per questa destinazione dal Nord-Italia (uno su due), mentre “solo” un giovane laureato su quattro emigra dal Mezzogiorno.

Il Nord è l’area del Paese che, dal 2013 al 2022, ha registrato la perdita di capitale umano più significativa a favore dell’estero, con un saldo negativo di circa 43mila unità, contro il -14 mila nel Centro e il -30 mila nel Mezzogiorno. Questo scenario cambia parzialmente se si considerano le dinamiche migratorie interne che riescono, talvolta, a invertire il saldo negativo trasformandolo in guadagno di popolazione. Difatti il Nord, in particolare, ha attratto oltre 125mila giovani laureati dal Mezzogiorno, bilanciando così il deficit dovuto agli espatri con un saldo positivo di circa 82mila unità. Ciò ha permesso alle regioni settentrionali di ottenere il duplice vantaggio di limitare gli effetti della “fuga di cervelli” verso l’estero, e di assicurarsi un significativo guadagno di capitale umano. Anche il Centro ha beneficiato di questo flusso migratorio interno, recuperando oltre 13mila giovani dal Sud, limitando così la propria perdita netta a circa 900 unità.

Il Mezzogiorno, al contrario, ha subito una doppia perdita: da un lato, le uscite verso l'estero, e dall'altro, il flusso migratorio interno verso il Nord e il Centro. Complessivamente, la perdita di giovani laureati del Sud ammonta a oltre 168mila unità. Questo squilibrio demografico e intellettuale «conferma la tendenza consolidata secondo la quale le aree più produttive del Nord e del Centro attraggono sempre più giovani risorse dal Mezzogiorno – precisa Licari –, mentre quest'ultimo rimane in una posizione di svantaggio strutturale, perdendo capitale umano essenziale per la propria crescita e alimentando ulteriormente il divario con le aree economicamente più sviluppate del Paese».

Continua la ricercatrice: «L’emigrazione dei giovani laureati all’estero può essere interpretata positivamente, se vista come un’esperienza transitoria di crescita e come formazione professionale da reinvestire successivamente al rientro in patria. Viceversa, se la permanenza dei giovani talenti fuori dai confini nazionali diventa stabile o irreversibile, può rappresentare la spia di un processo di disinvestimento di capitale umano che va a intaccare il potenziale di crescita del Paese».

Le storie: «Noi, emigrati perché più valorizzati»

«In Italia c’è poca certezza lavorativa, qui in Repubblica Ceca mi hanno assunta con un semplice titolo di laurea e ho imparato il mestiere lavorando sul campo». Margherita Di Muro è una dei tanti cervelli in fuga che hanno lasciato l’Italia nell’ultimo decennio alla ricerca di una vita migliore. A 25 anni, nel 2018, la ragazza, di origini bergamasche, ha preso la valigia e si è trasferita a Praga: «Ho contattato un’agenzia locale e ho trovato impiego in un mese in una multinazionale medica». Oggi lavora nelle risorse umane dell’azienda, ha un futuro certo e non rischia di perdere il proprio impiego. «Qui c’è un basso grado di disoccupazione, circa il 4%, e le multinazionali cercano persone di lingue diverse – precisa –. I costi della vita si stanno alzando, ma anche gli stipendi sono aumentati e sono stati adattati ai prezzi. La maggior parte delle imprese assume con contratto a tempo indeterminato». Differenze, queste, non di poco conto rispetto al Paese d’origine: «In Italia – racconta – ho fatto colloqui assurdi per dei semplici stage post-laurea, alcuni nemmeno pagati, in cui mi chiedevano il mondo, oltre a mille competenze specifiche».

C’è anche chi ha fatto questa scelta per i propri studi. «Le università in Spagna sono più pratiche, al contrario dell’Italia in cui le lezioni sono frontali e teoriche», sottolinea Alessandra Brunati, comasca, che si è spostata a Barcellona per una laurea magistrale in Biotecnologie, dopo aver concluso la triennale in Italia. Dello stesso parere anche Costanza Margini, studentessa italiana dell’università di Würzburg, in Germania dal 2019: «Una delle principali differenze è il costo – spiega –. Qui la retta annuale è di circa 400 euro, inclusa la tessera per i trasporti pubblici». Ma non è tutto: «Il sistema prevede contratti specifici per studenti, rendendo facile trovare lavoretti ben retribuiti durante il percorso di studi». Chiaramente non è tutto rose e fiori: «Se lo Stato finanzia gran parte degli studi, si aspetta anche risultati concreti: non è accettabile impiegare anni per laurearsi». Ma comunque, la fatica alla fine viene ripagata: «Ho svolto diversi impieghi part-time e posso affermare con certezza che in Germania il lavoro è valorizzato. Gli stipendi, a differenza dell’Italia, sono equi e adeguati all’andamento dell’economia e dei prezzi al consumo, garantendo una retribuzione giusta e dignitosa».

Discorso simile anche per la Svizzera, una delle mete più ambite soprattutto per chi vive nel nord Italia: «Ho scelto di studiare ingegneria civile qui, principalmente per la vicinanza a casa, dato che abito vicino al confine rispetto alla stessa facoltà – dice Lorenzo Fusina, laureato alla Supsi, università nel Canton Ticino, dove ha trovato anche lavoro –. Sulla mia scelta hanno pesato pure le potenziali opportunità lavorative: la Svizzera, oltre ad essere geograficamente comoda, presenta anche salari più interessanti». E pure in questo caso l’approccio negli atenei è molto diverso: «Il sistema di formazione è meno accademico rispetto alle nostre università. Per esempio, ogni semestre gli studenti sono tenuti a portare a termine un progetto pratico che permette di applicare le nozioni teoriche apprese in aula». Ma la meta preferita, secondo i dati Istat, rimane il Regno Unito: «All’università il rapporto tra studenti e professori è di stima – specifica Chiara Rambaldi, laureata a Londra, città in cui lavora –. Qui non sei un numero di matricola, sei uno studente con una vita, un’esperienza e un percorso. Tanto che, in un momento di difficoltà familiare, mi venne assegnato uno psicologo gratuitamente per aiutarmi a superare quel periodo. Le tasse universitarie sono molto più elevate ma lo Stato ti offre la possibilità di coprire le spese di affitto e di avere uno stipendio per vivere, che poi restituirai gradualmente dopo aver trovato un impiego». E anche nel mondo del lavoro il Paese non si smentisce: «Dopo quattro anni di studi – prosegue – ho messo insieme un curriculum e 13 giorni dopo la laurea mi assunsero in una compagnia di marketing che lavora direttamente per il governo inglese. Mi permettevano di lavorare sempre da casa, portare la mia cagnolina in ufficio e il salario non era affatto male. Tutto ciò con un contratto a tempo indeterminato». Tutta un’altra storia rispetto all’Italia.