Se lungo i fangosi sentieri della rotta balcanica non c’è ancora stata una strage di migranti è merito dello stoicismo dei profughi, dell’eroismo dei volontari e della buona sorte che ancora per poco tiene alla larga le impietose tormente di neve. Non vuol dire che non ci sia scappato il morto, ma i governi locali sono più interessati alle contese di vicinato che non a scongiurare per tempo le minacce della stagione delle bufere. «Siamo campioni di triathlon, ma il pattinaggio artistico non fa per noi», ironizza Nizar, siriano venticinquenne arrivato a Tabanovce, ultimo lembo macedone prima della Serbia, con un paio di
rollerbladeappesi allo zaino e una barba che taglierà solo quando potrà baciare la Porta di Brandeburgo. «Il nuoto, per non crepare affogati davanti agli scogli della Grecia. La maratona, per raggiungere a piedi la Macedonia. I pattini a rotelle, per restare attaccati all’auto del tassista». Nizar lo dice mostrando come fossero un trofeo olimpico alcune immagini di un fotografo dell’Acnur che ha seguito l’avventura dei ragazzi di Aleppo. Il
passeur, infatti, massimizza caricando nell’abitacolo fino a sei persone tra bambini, anziani, disabili e donne. I giovani più in forze possono aggrapparsi alle maniglie delle portiere restando in equilibrio sui pattini, venduti o messi a noleggio dal medesimo autista che così può arrivare a intascare mille dollari a corsa. Giusto il tempo di aggirare i controlli alla frontiera serba, da dove i migranti si allontanano alla svelta verso la Slovenia, diventata l’imbuto dell’intero flusso. Qui gli arrivi sono mediamente mille al giorno, contro i picchi autunnali di 8mila. Nella cittadina di Veles, a metà strada tra Skopje e il posto di frontiera greco, Lence è ancora lì dove la avevamo incontrata quattro mesi fa. La sua organizzazione informale si è estesa a tal punto che gli operatori delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative di stanza sul confine greco suggeriscono a chiunque di fare una sosta da lei, dove negli ultimi due anni insieme a vicini di casa e associazioni benefiche non è mai mancato un pasto caldo e un riparo per la notte. «Gli afghani sembrano i più abituati a resistere alle temperature sotto zero – racconta Lence –, invece siriani e africani tremano come foglie». Bambini e anziani sono i più esposti, ma niente ferma il sogno europeo delle famiglie scampate alle bombe, fiaccate dalla marcia negli acquitrini, minacciate dai trafficanti, ma non certo intimidite dalle intemperie. Ogni tanto qualche cadavere senza nome finisce all’obitorio. Derubricato tra i pietosi casi dei senza fissa dimora di cui nessuno reclamerà mai neanche le ceneri. Alcune carovane, però, sostengono di aver sentito di molti profughi morti all’addiaccio. Al momento le autorità di Macedonia, Serbia e Slovenia, assicurano di non saperne nulla. L’unico caso noto degli ultimi giorni è quello di un marocchino trovato carbonizzato mentre attraversava una galleria ferroviaria non lontano da Veles. La strada ferrata è l’unico modo per non perdersi tra i boschi e quest’anno almeno quindici persone hanno fatto la fine del nordafricano inciampato in un cavo dell’alta tensione ferroviaria, ma nessuno dei suoi compagni di sventura ha osato chiamare i soccorsi. Le restrizioni sui 'non siriani' scoraggiano qualsiasi accesso alle autorità, specie dopo gli attacchi di Parigi, che hanno fornito il destro per chiudere i valichi. Da quasi un mese la Macedonia si è infatti trasformata nella trappola dei cosiddetti migranti economici. Lungo il confine, sul versante greco, sono ammassati oltre duemila di essi. Iracheni, palestinesi, giordani, afghani, alcuni yemeniti. Per tutti loro le porte dell’Ue restano sbarrate. A Nord temono di essere respinti, ma neanche tornare in Grecia, che non li vuole e comunque li espellerebbe. L’unico conflitto armato riconosciuto è quello siriano. Nemmeno quella dello Yemen, dove i bombardieri sauditi sganciano bombe tedesche fabbricate in Italia, è contemplata tra le guerre che generano profughi meritevoli di protezione internazionale. Così finiscono per restare in ostaggio delle paure europee e della nuova guerra diplomatica scoppiata tra Skopje e Belgrado. Il presidente macedone Gjorgje Ivanov ha partecipato a Bruxelles ad un vertice con l’Ue e l’omologo serbo Tomislav Nikolic. È finita quasi in rissa. Più che egoismo l’irrigidimento macedone nasconde gelosie per questioni di cassa. La Serbia ha ottenuto 196,6 milioni di euro dai fondi di preadesione e assistenza stanziati dalla commissione europea per il 2015. Più di chiunque altro. La Macedonia, fanalino di coda, ha invece incassato 24,1 milioni, quasi la metà dei 40,4 milioni concessi al più piccolo Montenegro. Skopje vuole di più e spingere i profughi addosso alla Serbia consentendo ai trafficanti di aggirare i controlli è un modo poco elegante ma molto chiaro per farlo capire.