Attualità

Politica. Il «rischio urne» agita i partiti

Roberta d'Angelo venerdì 20 dicembre 2019

Il premier Giuseppe Conte

Nello stallo della maggioranza che non riesce ancora a elaborare una proposta unitaria di legge elettorale (ma anche il centrodestra per ora va in ordine sparso), il referendum proposto dalla Lega e quello costituzionale (sul taglio dei parlamentari) costituiscono un complicato intreccio di stratagemmi e interessi di bottega. Difficile districarsi tra le esigenze istituzionali, la necessità rimarcata da Luigi Di Maio di snellire il Parlamento, le ragioni di chi vuole votare subito con il Rosatellum che ha una soglia sufficientemente bassa, quelle di chi vuole il maggioritario puro, chi preferisce non doversi alleare e punta al proporzionale secco, l’esigenza di riscrivere i collegi prima del voto per riadattarli al Parlamento 'light'. Nei corridoi di Camera e Senato sono in molti a fare i conti se conviene chiudere qui la legislatura per andare al voto con i vecchi numeri che offrono qualche garanzia di poltrona maggiore. E allora c’è chi intreccia i due referendum, o ancora il proporzionale corretto al taglio degli scranni. Insomma, il pallottoliere rischia di andare in tilt, ma nei fatti bisognerà attendere il 15 gennaio, quando la Consulta deciderà sull’ammissibilità della proposta Calderoli, per capire tempi e modi della riforma elettorale.

Perché, stando alle certezze ostentate dagli alleati di governo, il referendum non passerà. Ne è convinto nel Pd Stefano Ceccanti, ma ne sono certi anche i pentastellati, per i quali gli elettori non direbbero mai no a un taglio delle poltrone. «Noi non vediamo l’ora di iniziare la campagna referendaria per confermare il taglio dei parlamentari – commenta il capo politico di M5s – .Significa che l’Italia, dopo decenni di inutili tentativi, sarebbe finalmente riuscita a ridurre il suo enorme numero di parlamentari, con 345 poltrone in meno da sfamare». E il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro, di fronte al fatto che il referendum sia stato chiesto non da 500.000 cittadini, ma da 64 senatori, conferma che si tratta di giochi da «vecchia politica». Anzi, insiste, «il taglio dei parlamentari è un risultato al quale si è arrivati proprio per contrastare logiche di questo tipo».

E comunque, incalza Matteo Renzi, non ci sarebbe nessun automatismo tra il risultato e la vita del governo. «Secondo me non cambia niente», spiega il leader di Italia viva. «Sarebbe impossibile» dopo che il Parlamento ha approvato la riforma, che si andasse a votare con il numero pieno dei 945 parlamentari. Quindi, secondo me si voterà comunque per seicento parlamentari».

Ma qui entrano in gioco gli stratagemmi leghisti. Il referendum elettorale del Carroccio lascerebbe solo i collegi uninominali. Per renderlo ammissibile dalla Corte, Calderoli ha predisposto un complicato marchingegno giuridico che passa per il sollevamento di un conflitto di attribuzione verso il Parlamento da parte dei sette Consigli regionali che hanno promosso il referendum. Dunque, se la Consulta ammettesse il referendum, il dibattito sulla legge elettorale che finora si è concentrato su due modelli proporzionali diverrebbe ancora più difficile. Tanto più che il confronto tra maggioranza e opposizione sui vari modelli ieri ha visto la Lega possibilista anche sul proporzionale. Cosa che ha suscitato perplessità tra gli alleati di Fi e Fdi. Quanto ai dem, il problema allo stato è trovare una mediazione tra Renzi, che non vuole il sistema spagnolo ma accetta lo sbarramento al 5 per cento, e Leu che con il 5 per cento teme di non entrare. Sempre che la Consulta non dica sì al quesito leghista. Intanto, però, i giallorossi sanno di dover produrre un accordo da tenere pronto per ogni evenienza.