La testimonianza. «Il mio rientro a Milano, dove torno ad essere “l'extracomunitario”»
Matteo Fraschini Koffi
Siete mai stati fermati da una pattuglia della polizia in un vicolo vuoto alle due di mattina sotto la porta di casa in centro a Milano? A me è successo ieri. “Boss! Dove stai andando?”, mi hanno domandato due poliziotti in auto dopo aver accelerato per raggiungermi. “A casa”, ho risposto dopo alcuni secondi di esitazione. Per gli agenti non era sufficiente. “Fammi vedere i documenti”, hanno richiesto. Tra me e la polizia ho visto passare alcune parti delle mia vita. Sentivo che poteva succedere di tutto.
Ho 42 anni, di cui venti da giornalista freelance di base in Africa e due bambini di 6 e 4 anni e mezzo. Da una settimana giro le strade di Milano a piedi o con i mezzi per promuovere il mio ultimo libro che, paradossalmente, s’intitola “Oggi non muoio”. Nel corso della mia professione ho raccolto amicizie, fonti e contatti. Direttori di giornale e grandi aziende, diplomatici, politici e intellettuali. Prima di atterrare a Milano ho fatto da moderatore a una conferenza sulla microfinanza di 1.300 persone tenutasi a Lomé, capitale togolese, dove vivo.
Eppure quando torno a Milano ritorno anche ad essere “l’extracomunitario”. Proprio per questo cammino con gli occhi bassi, indosso un cappellino per nascondermi, e la mia psiche mi porta a mantenere sempre una certa distanza da chiunque, soprattutto dagli anziani e le donne. Non voglio che si sentano minacciati dalla mia presenza. L’altro ieri ho lasciato il libro a Radio Popolare e ho notato con piacere la scritta sulla porta d’entrata: “Nessuno qui è straniero”. La gentile segretaria a cui ho dato il manoscritto, dopo averle detto che vivo in Africa, ha ricambiato con una grande busta piena di penne: “Così le dai ai bambini”. Non potevo che ringraziarla.
Controlli a Milano - Ansa
Uscito dall’edificio avevo però davanti a me una signora, forse giornalista della stessa radio. Continuava a guardarsi alle spalle per capire quali fossero le mie intenzioni. Come al solito ho abbassato lo sguardo, fingendo di controllare il mio telefono (che era spento). In maniera un po’ goffa la signora ha cominciato ad andare verso sinistra, sebbene sospettassi che entrambi dovessimo andare verso destra. Sotto la visiera e con la coda dell’occhio l’ho vista attendere che la superassi. Ha poi ricominciato a camminare dietro di me, probabilmente sollevata.
Una cosa simile sta succedendo con la vicina di casa della persona che mi ospita. Per la prima volta in quasi due anni questa signora ha sfruttato un disaccordo su dove mettere la pattumiera per strada per scrivere alla mia amica un messaggio ostile e facendole capire che, attraverso le fessure del suo terrazzo adiacente al nostro, ha notato il suo “nuovo” ospite. È una lotta quotidiana che fatico sempre a spiegare. In questi giorni avevo inoltre promesso ad Avvenire una serie di articoli “sotto copertura” per svelare un circolo di avvocati di Bologna che sfruttano gli immigrati per guadagnare con le procedure legali. Volevo anche fingermi ubriaco per dimostrare come alcuni impiegati della Croce Rossa milanese insultano gli stranieri quando li soccorrono. Ho già fatto questo tipo di cose, in Africa come in Italia.
Ma dopo una serata con gli amici dall’altra parte della città, sono arrivato alle due di mattina, stanco. Ho pure aiutato un gruppo di ragazzi la cui auto è rimasta bloccata sulle rotaie del tram. L’abbiamo alzata e spostata. Finalmente arrivo a casa. Il vicolo in zona Paolo Sarpi è vuoto e a pochi metri vedo un’auto della polizia. Non ci volevo credere. Mi fermano, appunto. Paradossalmente in Togo mi chiamano sempre “Boss” (capo) in maniera scherzosa e per ben altri motivi. Sono comunque abituato ad avere sempre il passaporto nel taschino, una fotocopia nel mio caso non basterebbe. I due agenti confabulano brevemente tra di loro. So che sono alla loro mercé e qualsiasi cosa mi succeda non ho testimoni. Faccio per dargli il documento quando mi dicono: “Niente, alla prossima”, e partono.
Salgo in casa e non capisco perché la mattina dopo continuo a piangere. Mi è successo tante volte di essere fermato e non mi ha mai toccato così nel profondo. Rifletto con le lacrime agli occhi, ho il fuoco dentro. Capisco che io debba essere fermato: sono nero e giro a piedi di notte a Milano. Capisco che debbano chiedermi i documenti, stessa ragione. Da parte della polizia un “Buona sera, signore, mi fa vedere i suoi documenti” forse non me lo merito. Quindi cosa è cambiato? Rifletto ancora e mi torna in mente una frase della madre dei miei figli in risposta a un video che le avevo mandato due anni fa. Ero una notte nel nord del Senegal, il bus su cui viaggiavo si era rotto nel mezzo di una strada sabbiosa e l’unica soluzione per arrivare a destinazione era rimanere attaccati alle sbarre esteriori di un altro bus per 60 km. Nel video sorridevo. La sua risposta, semplice e saggia, mi ha finalmente colpito ieri mattina: “Ricordati che hai due bambini ora”.