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Genova. Il porto non si è fermato, «ma senza ponte perderà mercati»

Paolo Viana, inviato a Genova domenica 2 settembre 2018

Una veduta del porto di Genova

«Il porto funziona». La parola d’ordine passava di bocca in bocca già nella serata del 14 agosto. Armatori, agenti, spedizionieri, terminalisti, autotrasportatori, sindacati e politici, tutti a fare quadrato intorno al cuore della Superba: il porto, spezzato in due dal collasso del ponte Morandi. È il primo scalo commerciale del Paese e l’unica ricchezza in questa terra abituata, come dice il cardinal Bagnasco, a «sfidare il mare e a cavare dai monti innumerevoli fasce per non abbandonare le proprie radici». Che la Liguria sia davvero «una visione, un modo di pensare e di vivere», come dice il suo Arcivescovo, Genova lo ha dimostrato ideando in poche ore un bypass stradale con il quale ha letteralmente salvato il suo porto, spostando nel centro della città una gran parte dei 60mila transiti che gravavano sul ponte Morandi; duemila erano mezzi pesanti diretti al porto e tremila camion al servizio della distribuzione commerciale. Si contano già 88mila passaggi sul lungomare Canepa e l’operazione non è ancora terminata.

I genovesi sono gente strana. Sul mare hanno fondato una Repubblica, ma importavano i dogi dall’estero perché nessuna famiglia avesse più peso delle altre: pronti a dividersi su tutto e uniti contro le avversità. Che si ripetono con una frequenza inquietante: tre alluvioni killer nel 2010, 2011 e 2014, la torre dei piloti abbattuta dalla Jolly Nero l’anno prima, per dire solo del peggio. I comunicati fotocopia che a Ferragosto annunciavano «il porto funziona » sono stati dunque una operazione di 'rassicurazione' planetaria, ben orchestrata da Gian Enzo Duci, brillante economista dai molti incarichi tra cui quello di presidente degli agenti marittimi (330 imprese associate e 4.000 addetti): ebbene, quest’operazione fotografava la realtà.

Il crollo del ponte sulla A10 non ha messo a repentaglio solo 28mila posti di lavoro nel porto principale (122.000 considerando l’indotto) ma anche l’identità storica della città, che nasce dal matrimonio tra Levante e Ponente. Lo stesso sistema portuale, che si estende per decine di chilometri di costa fino a Savona, deve il proprio primato al fatto di riunire scali tra loro diversi, che nei soli terminal genovesi movimentano 2,7 milioni di Teu (l’unità di misura dei container), sui 10,5 dei porti italiani. Perciò il disastro del 14 agosto è stato da subito un evento globale. Non solo per l’elevato numero delle vittime, ma perché ha minacciato di interrompere il flusso dei traffici commerciali dal Mediterraneo all’Europa del Nord. «Il mondo del shipment ha tremato per qualche ora – ammette Duci –, tuttavia la città e la regione hanno saputo mettere da parte odi e partigianerie e reagire rapidamente». Merito, anche, dei sindacati e lo ammette senza esitazione il direttore generale di Spediporto, Giampaolo Botta, che rappresenta 330 spedizionieri e diecimila addetti: «Il disastro ha imposto di lavorare su due porti distinti, verticalizzando il servizio dove e come possibile, e potenziando il traporto a corto raggio. Per adesso riusciamo così a servire il mercato senza troppi disagi, ma non sarebbe stato possibile senza ampliare gli orari operativi, in modo da sfruttare le fasce a bassissimo traffico della rete stradale, visto che una delle linee ferroviarie era e resta ancora fuori gioco».

Genova è l’unico capoluogo di Regione a non avere una tangenziale e nell’attesa (infinita) della Gronda, prima del 14 agosto si imboccava la A10 (pagando il pedaggio) anche per spostarsi da Sestri al centro storico. La soluzione escogitata nei giorni scorsi è stata quella, peraltro obbligata dalla morfologia del territorio, di canalizzare il traffico est-ovest con una serie di sensi unici dentro la città, richiamando in servizio l’antica via Aurelia; solo quello pesante sarà deviato dai prossimi giorni all’interno dell’Ilva, potendo scorrere per 6,5 chilometri in area portuale e sfruttando la cosiddetta 'strada del Papa', allo scopo di decongestionare almeno in parte il centro. Resterà il problema dei camion della distribuzione organizzata, che non sarà così semplice gestire. «Il bypass completo dovrà essere pronto il 17 settembre, perché, diversamente, con l’apertura delle scuole si bloccherebbe la città» ricorda Duci, confermando che l’operazione a cuore aperto - la viabilità viene modificata senza mai fermare l’attività portuale - ha il compito di riorganizzare contemporaneamente il traffico urbano, quello pesante che gravita sul porto e la logistica distributiva. Una scelta ardita ma che è stata presa fin dalla sera del 14, permettendo al porto di continuare a pompare container sulle reti di traffico.

Ovviamente, non tutti i 60mila passaggi del Morandi ora vengono scaricati sul centro urbano: il traffico della A10, che fa parte della E80, cioè la direttrice Turchia-Portogallo, è stato 'rammendato' a nord del capoluogo dalla bretella di Tortona che connette l’autostrada dei Giovi (A7) e la Voltri-Sempione (A26). Una deviazione che allunga il percorso dei tir di un centinaio di chilometri. «Gli operatori si sono accollati i costi per non perdere clienti – spiega Duci – e riteniamo che Genova, continuando a garantire la piena operatività, possa superare questa fase». Sarebbe come dire che l’impatto del disastro sul sistema portuale è zero; in realtà, il danno economico c’è ed è ingente. Danno diretto e indiretto. Tempi di percorrenza più lunghi e quote di mercato da difendere con i denti.

Innanzi tutto, le infrastrutture portuali di Levante fino all’aeroporto non possono più accedere alla rete ferroviaria, poiché la linea della val Polcevera è coinvolta nei crolli. In quest’area portuale l’operatività è assicurata dal trasporto su gomma, con un ovvio aggravio di costi: finché il sedime della ferrovia sul torrente Polcevera non sarà liberato e la linea riattivata (ci vorranno almeno venti giorni, ha comunicato ieri Rfi), dai terminal di Sampierdarena partiranno su autoarticolato 1000 container al giorno in più, rispetto al periodo precedente il crollo. Ma non è solo un problema di accessi: finché non sarà liberata la ferrovia della val Polcevera resterà isolato il primo parco ferroviario del porto, l’unico capace di creare convogli da 1300 tonnellate contro le 900 dei convogli formati a Voltri. Non è un caso se i primi a preoccuparsi per la tragedia genovese siano stati gli spedizionieri svizzeri e tedeschi, che da qualche anno avevano ripreso a servirsi dallo scalo italiano, malgrado lo storico ritardo del Terzo Valico che rende ancora oggi più competitivo il trasporto su strada.

Dopo aver atteso oltre un secolo un collegamento ferroviario rapido con la Pianura Padana e una tangenziale che facesse respirare la città, ora Genova rivuole almeno il ponte. Subito. «Non possiamo aspettare un giorno in più, né noi operatori, né i cittadini, perché siamo tutti sulla stessa barca – ammette Duci –. Superare l’isolamento della val Polcevera e riportare alla normalità il traffico tra Sestri Ponente, Cornigliano e il centro città significa risolvere tanti problemi quotidiani, a partire da quello degli studenti e dei lavoratori che devono allungare di molto il percorso». Qualche disagio, ovviamente, lo deve mettere in conto anche chi è diretto all’aeroporto e soprattutto i 4,2 milioni di passeggeri dei traghetti e delle crociere che gravitano sul sistema portuale, ma come dice Botta, 'sulla barca' non ci sono solo i genovesi: «Risolvere il problema in tempi rapidi è interesse del Paese – osserva il rappresentante degli spedizionieri – visto che le attività del porto fruttano allo Stato 3,5 miliardi all’anno e sono cresciute del 61% negli ultimi dieci anni». Siamo un popolo di navigatori e ci conviene restarlo.

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