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L'INTERVISTA. Il pm Ardituro: «Carceri vivaio della criminalità»

Nello Scavo lunedì 2 luglio 2012
​«Bisogna capire che la questione carceraria attiene non solo al profilo della dignità dei detenuti, ma anche a quello della sicurezza pubblica. Spesso si fallisce su entrambi i fronti». Non c’è da sorprendersi se a Poggioreale il nome di Antonello Ardituro, pm in forza alla direzione distrettuale antimafia, non susciti particolari simpatie. Il magistrato napoletano è titolare di alcune delle più clamorose inchieste di camorra, comprese quelle sulle infiltrazioni nella politica. A lui non piace ricordarlo, ma è suo il record di latitanti arrestati. Per tutti bastino i "casalesi" Giuseppe Setola, Antonio Iovine, Nicola Schiavone, Mario Caterino: gli spietati capi di "Gomorra".È possibile che il carcere diventi il vivaio nel quale addestrare e reclutare nuovi affiliati?Il sovraffollamento e la mancanza di progetti di rieducazione su larga scala fanno aumentare esponenzialmente la possibilità del proselitismo carcerario. I detenuti più forti e più ricchi usano il denaro per creare consenso, estendere il proprio potere, arruolare nuovi affiliati. La storia ci insegna che nelle carceri nascono addirittura nuovi clan.Il caso più eclatante?La nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo è l’esempio più lampante di clan che nasce dietro le sbarre. Si tratta di modalità che arrivano fino ai nostri giorni. Si comincia con piccoli reati, poi entrando e uscendo di prigione cresce lo spessore criminale del singolo che grazie alla detenzione allarga il giro di conoscenze e facilmente entra in contatto con i pezzi da novanta della criminalità.Come dire che il carcere può essere parte dell’ingranaggio criminale.In un certo senso sì. Ancora in questi giorni stiamo raccogliendo prove di come tra le celle avvengano non solo affiliazioni. Le indagini e le rivelazioni dei pentiti confermano l’esistenza di trattative: boss che si alleano tra loro, camorristi che stringono accordi con mafiosi siciliani o stabiliscono intese con esponenti della ’ndrangheta calabrese. Chi fa l’investigatore sa che le indagini risentono molto di quanto succede nel carcere, al punto che disponiamo di un nucleo di polizia giudiziaria (il Nucleo investigativo centrale del Dap) che lavora con noi perché specializzato nelle indagini all’interno delle case di reclusione.Cosa si dovrebbe fare per scongiurare, o almeno limitare, questi fenomeni?Se avessimo strutture di detenzione concepite e costruite in maniera diversa, se fosse drasticamente ridotto il sovraffollamento, se si puntasse sul serio e di più sul recupero e la rieducazione, certamente toglieremmo ai clan molte opportunità e restituiremmo dignità alla detenzione.Sul piano normativo, basta la "svuota carceri"?Occorre intervenire lungo due direttrici, quella del codice penale e quella processuale. L’iper-penalizzazione delle condotte ha prodotto effetti assurdi. Le leggi come quella sulla recidiva hanno avuto come risultato che se per cinque volte vieni scoperto a rubare una scatoletta di tonno (episodio realmente accaduto a Trieste, ndr) la tua condotta è considerata più grave di quella di un incensurato colto in flagrante a rubare una Ferrari. Peraltro, a proposito di spending review, si ha idea di quanto costa istruire tre gradi di giudizio, coinvolgendo decine di giudici, funzionari, impiegati, cancellieri e quanti altri, per il furto di una scatoletta di tonno? Infine occorre un serio piano di edilizia carceraria, per creare istituti capaci di avere spazi e strutture per la rieducazione e, al tempo stesso, consentire un ordinato controllo dei detenuti, per evitare le patologie che ho indicato.