La querelle. Il marmo e la disputa delle Alpi Apuane tra imprenditori e ambientalisti
Un David coloratissimo, alto 20 metri, campeggia sui marmi bianchi di Carrara. L’ha dipinto, nel 2018, lo street artist Kobra riportando a casa – almeno concettualmente – quel blocco estratto da Michelangelo per la più celebre delle sue opere fiorentine. Patrimonio di tutti. Come, da tempo, non sono più le Alpi Apuane preda del modello estrattivista nelle cave e delle dispute tra ambientalisti, imprenditori e istituzioni. Da un lato, il mondo dell’associazionismo contesta ai cavatori di arricchirsi a discapito di ecosistema e sicurezza dei lavoratori; dall’altro, le ditte difendono il diritto all’estrazione. La questione riguarda centinaia di lavoratori e soprattutto migliaia di residenti a rischio alluvione. L’attuale amministrazione ha cercato di mettere una pezza rinnovando le concessioni alle circa 70 cave. Ma lo ha fatto con una proroga al 2042, a fronte di un impegno economico irrisorio – in opere di interesse generale – dei beneficiari.
La disputa ha le sue radici nel 1751, quando Maria Teresa d’Austria firmò un editto che consentiva ai particulari ventennali, gli iscritti a una sorta di elenco di “affittuari”, di estrarre marmo liberamente. Privilegio, ove non venduto con atti notarli, che si è trasmesso di erede in erede fino agli attuali proprietari dei cosiddetti beni estimati, che coprono il 33% della superficie delle cave. Area che, di fatto, non è in mano al Comune di Carrara. «Al di là del privilegio – sostiene Mariapaola Antonioli, presidente Legambiente Carrara – nel tempo ci sono state usurpazioni. Già nel 1831 il primo catasto mostra che si erano allargati. Noi avevamo chiesto una ricognizione alla passata amministrazione, perché quello che era un fazzoletto oggi è un lenzuolo». La ricognizione non è mai arrivata, ma un tentativo di includere i beni estimati nell’agro marmifero comunale era già stato fatto dalla Regione Toscana durante il governo Renzi. La Corte costituzionale interruppe l’iter di quella legge 35 stabilendo che a pronunciarsi dovesse essere lo Stato, che ancora non ha mai legiferato.
I beni stimati si vanno ad aggiungere alle circa 70 cave in concessione. Queste pagano all’amministrazione un canone complessivo di circa 23 milioni di euro annui, a fronte di utili che per alcune aziende sfiorano il 50% del fatturato e con profitti che, per i colossi del settore, superano anche i 10 milioni. Gli investimenti in opere di interesse pubblico non sono granché superiori alla spesa per i canoni: «Hanno presentato progetti – spiega Legambiente – per un totale di 25,6 milioni di euro. In media, sono 371mila euro per azienda, a fronte di un rinnovo di 25 anni. Se calcoliamo più o meno 80 milioni di utile annuo per le 20 ditte maggiori, la manovra ha un profitto enorme».
A fare le spese di questo modello intensivo è l’ecosistema e, quindi, la cittadinanza. La marmettola, la polvere bianca derivante dalla lavorazione del marmo, disperdendosi intorbida le falde e costringe i Comuni a installare filtri. Se poi raggiunge i fiumi, uccide pesci e piante in grado di depurare i corsi d’acqua. «Quando si deposita sul fondo – sintetizza Antonioli – il fiume diventa un fiume morto». A questo si aggiunga che, rimuovendo le antiche discariche di cava (i ravaneti) per estrarre carbonato di calcio, le Apuane non sono più in grado di raccogliere acqua piovana. Aggravando il rischio alluvionale. «Per l’alluvione del 2003 – ricorda Legambiente – che fece anche una vittima, i periti del tribunale avevano spiegato che le cave erano, almeno in parte, responsabili».
Le associazioni accusano il Comune di “nascondere” informazioni sui concessionari. E il vescovo di Massa Carrara-Pontremoli, monsignor Mario Vaccari, si è mosso per vedere con i suoi occhi cosa è stato fatto. «Questa situazione mi preoccupa molto – confessa – perciò sono andato direttamente a parlare con i sindacati e con gli industriali. Ho visitato una cava e mi sono reso conto che solo poche aziende hanno quei profitti altissimi. Ma è allarmante che altre paghino concessioni basse o non le paghino affatto. Il pericolo è che non ci siano ritorni sulla cittadinanza di una ricchezza che è demaniale. Si crea una disuguaglianza inquietante, tutti lo sanno e non agisce nessuno». Per questo, l’invito del presule è rivolto a tutti: «Affrontiamo il tema con la pastorale sociale del lavoro, invitando cavatori e sindacati e ambientalisti per aprire un dibattito umano su questioni che sono fondamentali per lo sviluppo del territorio».