Il ghetto dei migranti di Rignano Garganico è rinato dalle sue ceneri. Malgrado l’incendio che lo aveva distrutto nella notte del 15 febbraio. Dopo meno di due mesi è come prima. Più di prima. Un vero cantiere. Baracche finite, baracche in costruzione, scheletri in legno, materiali accatastati, giovani africani agilmente arrampicati sui tetti a posare lamiere e teli. Sembra uno di quei villaggi del West che nascevano seguendo l’avanzare della ferrovia. Ma qui siamo nella pianura foggiana, al centro di distese di campi e invece dei binari ci sono strade bianche piene di buche. Forse in realtà questa baraccopoli è più simile a un villaggio di pellerossa che seguono i bisonti. Qui seguono i pomodori, dopo aver seguito arance e clementine a Rosarno. Un popolo in cammino alla ricerca del lavoro che qui comincerà tra pochi giorni con la messa a dimora delle piantine, ma il grosso arriverà da giugno con la raccolta. Ora il ghetto ospita già 500 persone ma è certo che tra due mesi saranno più di 2mila. E così intanto si costruiscono le grandi baracche comunitarie, più grandi dello scorso anno, ci spiega Ngor Sarr, mediatore della Caritas diocesana di Foggia, che ci accompagna assieme al direttore don Francesco Catalano e alle volontarie Concetta e Nikla, operatrici del progetto 'Presidio'. Non li ha certo fermati il sequestro dell’area eseguito eseguito lo scorso 23 marzo da polizia, carabinieri e forestali su ordine della Dda di Bari allo scopo di far luce su tutte le dinamiche relative al fenomeno del caporalato all’interno della baraccopoli. Sequestro 'con facoltà d’uso' e quindi nessuno se n’è andato. Anche perché, malgrado le assicurazioni della Regione, non è stata realizzata nessun alternativa, anche dopo l’incendio. «Ci siamo solo noi e altre Caritas pugliesi e perfino del Nord – denuncia don Francesco –, ad esempio l’aiuto economico della Caritas di Vicenza e degli scout dell’Agesci di Bassano del Grappa ci ha permesso di acquistare 1.500 taniche per l’acqua che stiamo distribuendo in questi giorni». Un aiuto concreto e prezioso, visto che molti migranti usano per l’acqua vecchi contenitori per pesticidi. Nel campo c’erano 5 grandi cisterne in plastica che due volte al giorno venivano riempite con l’acqua portata da un autobotte dell’Acquedotto pugliese. Due sono state letteralmente squagliate dalle fiamme ed ora sembrano delle curiose sculture astratte. Ce lo fa notare Martina, una delle poche donne del ghetto. «Aiutateci, se non c’è acqua non c’è vita». Nel campo gira da giorni una voce molto preoccupante. Un vero allarme. Si dice che il servizio di rifornimento dell’acqua sarà interrotto. Si teme che li vogliano prendere per sete, obbligandoli a sgomberare. «Ma non se ne andranno – riflette don Francesco –. Si arrangeranno magari usando l’acqua per l’irrigazione dei campi. Oppure qualcuno verrà a venderla. Un nuovo affare sulla pelle dei lavoratori migranti che però resteranno qui, vicino al lavoro». Oltretutto qui è degrado e sfruttamento ma non illegalità. È emerso con evidenza il giorno del sequestro quando 300 di loro sono stati portati a Foggia per un controllo. Ebbene solo 20 sono risultati irregolari. E così il ghetto non si ferma. Tante baracche già pronte e tante solo scheletri. La struttura è in pali di legno, materiale recuperato, anche mezzo bruciato dall’incendio. Non si butta niente. Le migliori hanno le pareti in lamiera (molte annerite dal fuoco), le più misere in cartone e teli di plastica. Baracche comunitarie (qui non ci sono famiglie), costruite in modo comunitario. «Qui tutti si aiutano », dice Concetta. C’è anche una specie di fogna (un grosso tubo chissà come rimediato) che porta via gli scarichi dalle baracche-bagni. Mentre i rifiuti vengono bruciati. E non è certo un bel respirare. Comunque qui la vita, si fa per dire, va avanti. Come ogni mattina ci sono mercatini dell’usato (scarpe, vestiti ma anche materiale elettronico), gestiti da rumeni o maghrebini venuti da fuori. Davvero l’incendio non ha fermato il ghetto. Ma ora?