Editoriale. Il coraggio della pace. Il gesto rivoluzionario di Yocheved
Poi quella stretta di mano e un saluto, Shalom, pace. L’incubo non poteva essere finito, era ancora sulla sua carne, e chi l’aveva percossa bastonandole le costole, facendole percorrere un tunnel, non solo metaforico, a bordo di uno scooter, scortato da altri due, le gambe legate e l’ignoto come punto di approdo, era ancora al suo fianco, armato fino ai denti, mascherato, da capo a piedi, nella divisa di una totale e completa dedizione alla violenza. E come non bastasse, dopo quella mano tesa, la provocazione delle parole, il “trattamento umano” che le era stato, chissà come, riservato. Yocheved Lifshitz, 85 anni, ebrea del kibbutz di Be’eri, epicentro della carneficina di Hamas, ha scritto una pagina a sé tra le tante – molte ancora sconosciute – terribili storie sull’asse sempre più insanguinato del conflitto Israelo-palestinese.
L’abisso del male che, pur senza volerlo, lascia filtrare uno spiraglio di altro segno: si potrebbe liquidare così, il “bel gesto” di un saluto e di una stretta di mano, archiviando la vicenda nella casistica di ciò che spesso avviene ai confini estremi, come quello che, tra la vita e la morte, l’anziana donna ha attraversato.
Ma forse niente succede a caso, se tra il frastuono d’armi e le allucinate visioni che produce un conflitto che straripa d’odio, a un tratto quell’immagine ha preso la scena. Certo, la forza del contrasto, lo stupore per un gesto non solo inatteso, ma in quei momenti ritenuto fuori posto e fuori luogo. Un evento controcorrente, lontano ed estraneo dagli obiettivi di pace. Alla fine, un “gesto folle”, senza nessuna giustificazione.
Se non fosse però che anche la pace, nel suo orizzonte più vasto, e non solo nell’angolo minuto di quella stretta di mano, può avere anch’essa a che fare con la follia. La lucida “follia” di chi sa che non sarà mai l’impossibile conto finale dei torti e delle ragioni, anche di fronte alla storia, a segnare i cammini di pace. E che neppure torneranno i conti quando sarà la vendetta a prendere la mano o quando l’insopportabile bilancio dei bambini morti da un lato o dall’altro sarà preso a movente per nuove e più gravi ritorsioni.
Se esiste un’utopia è proprio questa: una via alla pace costruita sulla ragioneria dei conti in sospeso o da saldare. Porgendo quella mano, e salutando il suo carnefice, Yocheved Lifshitz 85 anni – tanti, poco più, quanti quelli della tormentata nascita del suo Stato – si è fatta visionaria di pace. Ha dato cioè “visione” alla sua pace, spodestata non solo nella sua terra da una violenza senza fine e, in quel momento, brutalmente confrontata dal vivo, nel pieno di un dramma, di fronte al quale non era possibile abbassare la testa. Quella sua mano tesa, non aveva più solo il valore di un gesto, ma diventava l’offerta di una pace piena, come un corpo sano, nutrito dall’anima degli ideali, e fortificato dalla carne viva dei patimenti – dall’una e dall’altra parte – della pratica del dialogo, dei negoziati, e perfino della necessità dei compromessi.
La pace non è un aquilone al vento, percorre invece i sentieri avvelenati dalle inimicizie, segnati dalla follia della guerra, e da riconvertire a una “follia” ancora più estrema, facendo i conti con la storia, e avocando a sé il diritto del risultato finale: la guerra estirpata dalla storia. La pace non può che passare dalle vie intricate, dal tormento dei passi perduti, dalla frustrazione dei fallimenti. Non trova tappeti sparsi al suo passaggio. È fatica e sudore forse più della guerra. Il pensiero corre alla predicazione di pace del Papa che della pace ha preso il nome, Francesco. È per questo che nessuno come lui – oggi ha invitato i fedeli di tutte le religioni a una giornata di preghiera e digiuno per la pace – ne conosce la lingua e ancora più il cuore.
Quasi non c’è stato tempo per commuoversi di fronte a quel che s’è visto al momento del rilascio della donna. Tutto è passato troppo in fretta, sovrastato dalla furia di immagini che seppellivano di violenza quell’attimo di tregua. Ma finanche il turbamento, o l’attimo di smarrimento del guerrigliero di Hamas è parso a un tratto evidente. La “follia della pace” ha preso per un attimo anche lui, tutto dentro alla follia della guerra. Solo qualche attimo. Poi tutto è ritornato alla triste normalità della guerra. Ai torti, alle ragioni, anche se davanti alla storia hanno nomi diversi e più solenni. Ma quell’attimo non va perso. Non ha infranto per niente uno scenario di altro verso. E non può essere il refuso di un racconto che parla d’altro: della sana “follia” della pace.