Attualità

Omofobia. Il genere, un labirinto. Ecco come uscirne

Luciano Moia sabato 13 giugno 2020

“Identità di genere? Non uso di frequente questa espressione. Da un punto di vista comunicativo e strategico. Se faccio ricorso a una parola e poi sono costretta a impiegare venti minuti per chiarire in che senso la impiego, rischio io stessa di fare confusione e quindi di non farmi capire. In ogni caso non è un’espressione neutra, univoca, servono le virgolette”.

Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane e docente di teologia patristica a Milano e Verona, dopo anni trascorsi a riflettere sul ruolo della teologia di genere, è convinta che sia importante riflettere con attenzione, evitando le semplificazioni: a questo scopo è nata una intera Serie Teologica, Exousia (San Paolo), dedicata proprio a questo ripensamento importante: non un pentimento, ma un approfondimento. Occorre collocare la parola “genere” in due contesti di origine: quella dell’antropologia che fa riferimento al sex gender system e quella della sessuologia clinica. Letture che hanno contribuito ad accrescere la complessità di un’espressione tanto controversa. Da qualsiasi parte la si legga, “identità di genere” – tra virgolette - è ormai caricata di un peso culturale che la orienta, spesso la piega. E, allora, qual è la soluzione? Andiamo per ordine.

Identità di genere e orientamento sessuale sono concetti dibattuti da almeno mezzo secolo. Ora, la decisione di inserire entrambe le espressioni nel testo unico che farà sintesi delle cinque proposte di legge contro l’omofobia, ha rinfocolato il dibattito.

“Per capire l’evoluzione semantica del “genere” – riprende la teologa - bisogna guardare (almeno) a due contesti diversi, quello delle scienze socio-antropologiche in cui gender sta a indicare la modalità culturalmente determinata in cui donne e uomini si rappresentano e vivono. E quello della psicologia e della sessuologia clinica che considerano l’identità sessuale come il “chi sono” dei soggetti in relazione alle rappresentazioni socialmente definite e condivise del femminile e del maschile. Mentre il ruolo di genere rimanda alle aspettative di comportamento conformi all'identità di genere desumibile dal sesso”.

Tutto chiaro, o quasi, ma non è ancora finita. Perché negli anni Ottanta arriva Judith Butler che riconosce al gender un carattere performativo e si propone di sovvertirlo perché, sostiene, la sua forma binaria costruisce il paradigma eterosessuale normativo, escludendo in questo modo chi non vi si riconosce. Ora anche la filosofa di origine ebraiche, considerata a lungo la profetessa del gender, è andata oltre e utilizza anche altre concettualità. “Nei suoi ultimi studi – sottolinea ancora Simonelli – tutto ha finalità inclusiva, a partire dalla comprensione della vulnerabilità e dunque contro l’esclusione e la violenza”.

Insomma, quando diciamo “identità di genere” ci infiliamo in un labirinto da cui è complesso uscire. Troppi i rimandi culturali concentrati nella stessa espressione. “Non mi sembra utile intenderla come una miriade di identità, una dissoluzione – argomenta ancora la presidente delle teologhe italiane – ma non può far neppure riferimento solo alla transessualità. In entrambi i casi rischiamo di fare un pessimo servizio alla realtà”.

E si possono anche determinare contraddizioni spiacevoli. “Giusto imparare a usare la complessità nel rispetto delle diversità ma senza innescare processi che, con l’intento di garantire la giusta tutela di ogni minoranza – urgente e improrogabile, sia chiaro - , impediscano di ripensare, anche nel senso di liberarli dagli stereotipi, i riferimenti simbolici più frequenti”. E qui entriamo in un ambito ancora più complesso ma che è giusto affrontare. Parlare di categorie di orientamento sessuale – omosessuali, transessuali, bisessuali… e l’elenco sarebbe lunghissimo – serve per capire, ma troppo spesso chi le contrasta, non fa più riferimento a persone concrete, con le loro speranze e la loro sofferenze, bensì alle loro rappresentazioni caricaturali.

“Qui il problema – mette in luce la teologa – si può cogliere in un non sempre dichiarato e comunque non problematizzato concetto di “natura”, che nella differenza troverebbe una conferma essenzialista, nel gender una dissoluzione apocalittica. La questione è evidentemente più complessa e degna di essere considerata uno dei “casi seri” della cultura attuale, nella quale la negazione delle differenze e la riduzione della dimensione critica causano la discriminazione dei soggetti e l’atrofia del pensiero. Vera sfida per la conversione ecclesiale”.

Insomma, quando gli estensori delle proposte di legge contro l’omofobia fanno ricorso a “identità di genere” e “orientamento sessuale” senza chiarirne il significato – e limitandosi a spiegare che i termini si trovano già nella giurisprudenza italiana e nella convenzione di Istanbul – non offrono chiavi di lettura adeguate. Tanto meno lo fa chi semplicemente li contrasta. Sia perché le sentenze della Consulta a cui si fa cenno si limitano, a loro volta, a impiegare la terminologia sotto accusa senza approfondirne la complessità, sia perché lo stesso trattato del 2011 contro la violenza sulle donne liquida la questione in poche righe (“con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per uomini e donne”, art. 3, c).

Un po’ poco per concludere che ci troviamo di fronte ad espressioni largamente condivise che non si prestano a letture estensive e magari opposte – o anche capziose - rispetto alle buone intenzioni del legislatore.