Si delineano meglio alcuni aspetti della tragedia del barcone che ha fatto naufragio a 73 miglia al largo della Libia nella notte tra il 18 e il 19 aprile scorsi col suo carico di centinaia di migranti scomparsi. Per l’Acnur sarebbero almeno 800 i morti. Attraverso il racconto dei sopravvissuti ci arriva tutta la drammaticità e l’orrore vissuto da chi era a bordo nel momento di un affondamento che ormai sembra sia stato causato dallo schianto contro il cargo di soccorso. «Quando il nostro barcone si è scontrato contro la nave, dopo le manovre del comandante che era ubriaco e fumava hashish mentre era al timone, ci siamo spaventati. Tutti siamo corsi verso la prua, e così si è prima inclinato e in cinque minuti il barcone si è inabissato. Mentre andavamo giù con l’acqua che ci travolgeva sentivamo le grida dei nostri fratelli chiusi a chiave nella stiva». Lascia senza fiato il racconto fatto da uno dei minori sopravvissuti alla morte solo perché «eravamo sul ponte più alto» e che dopo l’arrivo a Catania sono ora accolti nel centro minori di Mascalucia.Gli operatori dell’organizzazione "Save the Children" ne hanno identificati 4 tra i 28 superstiti, due somali e due bengalesi di 17 anni. Dalle loro testimonianze sembrerebbe che, tra le circa 850 persone a bordo, ci fossero una sessantina di adolescenti che viaggiavano nei due piani superiori del peschereccio e che sono dispersi. Il direttore generale di "Save the children Italia", Valerio Neri, così commenta: «Il terrore che si legge negli occhi di questi ragazzi deve essere lo sguardo che ognuno di noi deve immaginare di incrociare ogni momento, di cui il mondo politico deve tenere conto in ogni sua decisione. È lo sguardo che i capi di Stato che si incontreranno giovedì nel vertice europeo non possono più ignorare». Sono invece detenuti nel carcere di Catania i due presunti scafisti: Mohammed Ali Malek, il comandante tunisino di 27 anni, e il marinaio Mahmud Bikhit, siriano di 25 anni. Dovranno rispondere di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il marinaio solo per quest’ultimo reato. Le indagini continuano e non è da escludere una ispezione marina o forse anche l’eventuale recupero del relitto.I superstiti sono in buone condizioni di salute, ma psicologicamente a pezzi. A descrivere il loro stato d’animo sono gli operatori della Croce rossa di Catania che lunedì notte li hanno assistiti al loro arrivo, dopo che per ben due giorni sono stati in navigazione, nonostante da Malta alla città etnea bastasse mezz’ora di aereo per mettere fine alla loro passione e sofferenza. Ora 18 di loro sono stati trasferiti nel centro di accoglienza di Mineo, dove proprio in queste ore è stata individuata e sgominata una rete di trafficanti.Nel corso di un colloquio con il presidente nazionale della Croce rossa italiana uno degli ospitati a Mineo ha detto: «Non avete idea di quello che sta accadendo in Libia, delle violenze che abbiamo subito». L’uomo, cittadino del Gambia, ha raccontato di essere l’unico sopravvissuto di un gruppo di 100 persone. I trafficanti dei movimenti migratori che solcano il Mediterraneo stanno modificando le modalità di viaggio nel trasporto del loro carico umano. Ciò che viene riscontrato da qualche tempo da chi opera in mare aperto per salvare vite umane e chi indaga per arrivare a punire i responsabili di questa tratta, è l’impiego di natanti, se così si possono chiamare, diversi dalle solite consunte carrette del mare, i pescherecci, o le "Navi-madre" che salpavano con il loro sovraccarico di migranti da trasbordare poi su piccole imbarcazioni. È accaduto ancora ieri in acque libiche con il salvataggio coordinato dalla Guardia costiera, in distinte fasi, di 638 persone che si trovavano a bordo di sei gommoni fatiscenti. Altro salvataggio di 446 migranti su un peschereccio è avvenuto a sud della Calabria. Ma a salpare dalla Libia sono sempre più i gommoni, colmati di gente per affrontare il mare aperto in condizioni inadatte. Come quello che trasportava 112 migranti soccorsi ieri sera a circa 50 miglia a nord est di Tripoli dalla Guardia costiera. Sono "mezzi precari" privi di chiglia rigida, la maggior parte con un unico tubolare che spesso si sgonfia dopo poche ore. Tanto che il personale della Guardia costiera fatica a definirli natanti: «Non si possono neppure chiamare imbarcazioni quelle che le organizzazioni criminali, senza scrupoli, sempre più spesso recuperano, magari già semi affondate, pur di riempirle di disperati in fuga da guerre e persecuzioni».