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Ex ministro Dc. Il caso Mannino: l'assoluzione non ripaga 30 anni da «mafioso»

Danilo Paolini domenica 13 dicembre 2020

Il giorno dopo l’assoluzione definitiva dell’ex ministro Dc Calogero Mannino dalla pesante accusa di «minaccia a corpo politico dello Stato» nell’ambito dell’ormai nota quanto presunta 'trattativa Stato-mafia', il clamore per la notizia in sé lascia il posto alle dovute riflessioni. In primo luogo sulla vicenda umana del cittadino Mannino. La prima volta che il suo nome fu accostato a Cosa nostra in un’inchiesta giudiziaria risale al lontano 1991, quando Mannino aveva 52 anni. Oggi ne ha 81. Ha vissuto 29 anni da imputato, anzi da «mafioso», perché quella prima accusa di «concorso esterno in associazione mafiosa» (che nel 1992 lo portò anche in carcere in custodia cautelare per 9 mesi, più altri 13 ai domiciliari) si trascina fino al 2010. Nel mezzo una prima assoluzione (2001) «perché il fatto non sussiste », ribaltata in appello da una condanna a 5 anni e 4 mesi. Quest’ultima è però sconfessata dalla Cassazione, che la annulla con rinvio. «Nella sentenza di condanna di Mannino non c’è nulla – scrivono infatti i giudici di Piazza Cavour –. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c’è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta».

Il processo d’appello bis si conclude nel 2008 con una nuova assoluzione «perché il fatto non sussiste». Si torna quindi in Cassazione, che chiude definitivamente quella vicenda nel 2010, confermando la decisione dei giudici di merito. Nemmeno il tempo di un sospiro di sollievo per quei 19 anni trascorsi sotto inchiesta e sotto processo (e in parte anche dietro le sbarre) che per Mannino arriva la nuova accusa, di cui si è liberato soltanto due giorni fa: «Minaccia a corpo politico dello Stato». Nel 2012 l’allora pubblico ministero Antonio Ingroia ne chiede il rinvio a giudizio. L’ex ministro chiede e ottiene di essere giudicato con rito abbreviato. Nel 2015 il gup di Palermo lo assolve «per non aver commesso il fatto», assoluzione confermata ora in via definitiva dalla Corte di Cassazione.

Fine della storia, ma quasi 30 anni se ne sono andati così, nelle vite di Mannino e dei suoi familiari. Non esiste, su questa terra, un giudice in grado di restituirli. Si potrebbe perfino dire che Mannino, come Giulio Andreotti, è stato fortunato a sopravvivere alla sua odissea giudiziaria, così da non morire da imputato, anzi da «mafioso». Gli resta, forse, la consolazione di essersi difeso 'nel' processo e non 'dal' processo. Ma quando i processi durano una vita, come in Italia, sembra davvero una magra consolazione.

Guardando avanti, bisognerà vedere se e in che misura l’assoluzione definitiva di Mannino potrà incidere sul troncone principale del processo d’appello sulla cosiddetta 'trattativa Statomafia', già in fase avanzata: la sentenza è prevista nel 2021. Il primo grado si è chiuso nell’aprile del 2018 con le condanne dei boss mafiosi Leoluca Bagarella (28 anni di reclusione) e Antonio Cinà (12 anni), degli ex ufficiali del Ros Carabinieri Antonio Subranni e Mario Mori (12 anni), dell’ex capitano Antonio De Donno (8 anni), dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri (12 anni). Condannato a 8 anni, ma per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Giovanni De Gennaro, Massimo Ciancimino, figlio di Vito, ex sindaco mafioso di Palermo. Assolto in via definitiva dall’accusa di falsa testimonianza l’ex presidente del Senato Nicola Mancino.