Attualità

Disforia di genere. Farmaco "gender", «troppi rischi, fermiamoci»

Luciano Moia sabato 1 dicembre 2018

Farmaco gender, la confusione al potere. Mentre l’Aifa, dopo il via libera del Comitato di bioetica dello scorso luglio, sta ancora decidendo sulle modalità di somministrazione della triptorelina per 'curare' la disforia di genere, l’azienda produttrice annuncia la disponibilità della molecola 'in formulazione semestrale' anche per l’Italia. Ma i dubbi degli esperti negli otto centri italiani che seguono le linee guida dell’Osservatorio nazionale sull’identità di genere sono tutt’altro che risolti. Davvero il ricorso alla molecola sintetica che inibisce l’ormone dello sviluppo testicolare e ovarico, bloccando di fatto l’adolescenza in attesa di 'cambiare sesso', può essere la soluzione decisiva nei casi di disforia di genere?

A fare il punto di una situazione complessa, eticamente preoccupante e tutt’altro che chiara sotto il profilo scientifico, arriva adesso uno studio realizzato dall’associazione Scienza & vita e dal Centro studi Rosario Livatino. L’invito degli esperti che hanno compilato la ricerca è esplicito: bisogna fermarsi perché, di fronte alla scarsità di dati e di conoscenze, serve un supplemento di indagine. C’è infatti il timore che, con la possibilità di accedere all’utilizzo della triptorelina nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, «la pratica clinica quotidiana degeneri, finendo per ridurre la soluzione di un problema così complesso e decisivo per la persona alla banale somministrazione di una molecola».

Di cosa stiamo parlando? In Italia c’è un giovane su 9mila affetto da disturbi dell’identità di genere. Sindrome dalle cause incerte, in cui si mescolano radici biologiche e psicosociali, la cui persistenza al termine dell’adolescenza oscilla tra il 12 e il 27%, con diversità molto accentuate tra maschi e femmine. Vuol dire che su dieci preadolescenti a cui viene diagnosticata la disforia di genere – diagnosi comunque difficile, delicata e spesso controversa – 7-8 risolveranno il loro disturbo al termine dell’età dello sviluppo. Due o tre invece continueranno a sentirsi ingabbiati in un sesso biologico diverso rispetto alla loro identità psicologica. Per costoro alcuni esperti ipotizzano la necessità di ricorrere a un farmaco, appunto la triptorelina, un antitumorale che tra i suoi molteplici effetti ha anche quello di bloccare gli ormoni della pubertà. Questo permetterebbe di minimizzare i disturbi psicologi del ragazzo/a in attesa di arrivare poi alla 'riassegnazione chirurgica del sesso' al compimento dei 18 anni. Perché prima della maggiore età la legge italiana, saggiamente, vieta il cosiddetto cambio di sesso. Evidente che una scelta del genere che investe, oltre a quelli biologici, aspetti psicologici, etici, religiosi, non si possa fare in modo superficiale o affrettato. Anche perché esistono tuttora domande a cui nessuno sa rispondere: cosa succede se, dopo due o tre anni di trattamento con la triptorelina – il minino per ottenere qualche risultato – un adolescente cambia idea? Il suo sviluppo ormonale riprenderà regolarmente? E la fertilità sarà mantenuta? E come riallineare lo sviluppo cognitivo, che nessuno può arrestare, con quello puberale che nel frattempo è stato sospeso chimicamente? C’è anche chi ipotizza che il blocco ormonale possa finire per compromettere la definizione morfologica e funzionali di quelle parti del cervello che contribuiscono alla strutturazione dell’identità sessuale. E con quali conseguenze? Impossibile rispondere. E infatti lo studio sottolinea innanzi tutto «la sostanziale carenza di letteratura scientifica che attesti evidenze di efficacia e di sicurezza di questo tipo di trattamento». Le ricerche, a livello mondiale, sono infatti soltanto due. Una mostra un caso singolo, con un follow up dopo 22 anni di trattamento. L’altra è uno studio su 55 transgender olandesi. E gli stessi autori, pur giudicando positivamente i risultati, «ribadiscono che si tratta di dati preliminari».

Una grande questione riguarda il consenso che il minorenne, secondo quanto previsto dal Comitato di bioetica, dovrebbe esprimere a proposito del trattamento con triptorelina. Ma gli esperti di Scienza & vita e del Centro studi Livatino, giustamente si chiedono: «Un minore in età prepuberale che si trovi in 'condizione frequentemente accompagnata da patologie psichiatriche, disturbi dell’emotività e del comportamento' può esprimere un consenso? Come possono i professionisti del settore garantire che il consenso di un preadolescente affetto da disforia di genere sia 'libero e volontario'?». Domande che sembrano destinate a rimanere ragionevolmente senza risposta. Ma allora, se come prescrive l’Aifa, l’ipotesi di cura del disturbo del minore che si senta in difficoltà rispetto al sesso biologico attraverso la sospensione del suo sviluppo sessuale, «passa obbligatoriamente dal presupposto di un consenso che egli non è in grado di esprimere» per ragioni di età, di capacità, di problematiche psicologiche o psichiatriche, non sarà il caso di riconsiderare l’intera 'questione triptorelina'? Insomma, prima di aggiungere sofferenze ancora più grandi e irreparabili a situazioni che sono già di grave disagio, sembra opportuno congelare una pratica ad alto rischio.