Agricoltura. Caporalato, questione euro-meridionale. I casi di Italia, Spagna e Grecia
Lavoratrice marocchina stagionale raccoglie fragole in una serra a Huelva, Spagna
Nella migliore delle ipotesi è lavoro "grigio", con eccesso di contratti interinali e pratiche previdenziali al limite della legalità. Nella peggiore è lavoro nero gestito dai caporali. Poi molestie e abusi sessuali. E baraccopoli senza acqua, elettricità e fogne, esposte a rischio incendi. Ovunque paghe da fame. Sono le condizioni disumane di decine di migliaia di lavoratori agricoli nei campi e nelle serre del Mezzogiorno d'Italia, delle regioni spagnole della Murcia e dell'Andalusia, dell'area di Manolada in Grecia. Si intitola «E(U)xploitation» - la sigla dell'Unione europea sovrapposta a exploitation, in inglese «sfruttamento» - ed è il nuovo rapporto dell'associazione ambientalista Terra! che porta alla luce le diverse sfaccettature del comparto agricolo dell'Europa meridionale. Filiere produttivi fragili, aziende che sopravvivono alle pressioni della Grande distribuzione organizzata - le catene dei supermercati - grazie al contenimento brutale del costi della manodopera.
«Il caporalato viene solitamente raccontato come un tema di cronaca interna - affermano i ricercatori - ma Terra! scardina la narrativa convenzionale per calare il fenomeno in un contesto più ampio, quello europeo, e in particolar modo degli Stati mediterranei, per cercare le cause profonde del fenomeno nella fragilità delle economie dell’Europa meridionale. Cercare le cause strutturali di questi problemi è un passo verso la ricerca di soluzioni concrete». «Lo sfruttamento del lavoro è una piaga connessa a un’economia di filiera fragile, che vive di informalità - commenta Fabio Ciconte, direttore di Terra! - ed è una realtà non solo nazionale, ma europea. Ecco perché chiediamo che l’Europa si faccia carico con maggiore determinazione delle condizioni sociali ed economiche dei lavoratori agricoli, costretti a vivere in condizioni di invisibilità e precarietà estrema».
Italia: lavoro grigio, doppio ribasso, cottimo
In Italia il settore agricolo è uno dei principali motori di sviluppo del Sud. Qui c'è la quasi totalità della produzione ortofrutticola nazionale, ma nonostante ciò, il Mezzogiorno arranca perché dal Sud parte solo il 30% delle esportazioni totali dell’agroalimentare italiano. La Piana del Sele (Salerno), l'Agro Pontino (Latina) e il Foggiano sono le aree con forte disgregazione tra gli addetti, scarsità di politiche di filiera, mancanza di organizzazione del lavoro. Fattori che fanno il gioco della Grande distribuzione organizzata (Gdo), «che commercializza il 70% dei prodotti e che vincola, attraverso pratiche a volte vessatorie, i produttori a dure condizioni contrattuali». Tra queste, le «aste al doppio ribasso»: il compratore raccoglie le offerte dei produttori, e la più bassa non sarà il prezzo, ma a sua volta la base d'asta di un'altra gara al prezzo più conveniente.
Un esempio? Il dossier spiega che nel 2019 una catena europea ha pagato 31,5 centesimi a bottiglia di passata, 21,5 a lattina di pelati. Grazie alle pressioni di Terra!, è stato elaborato un disegno di legge correttivo, il ddl 1373, che attende di essere approvato in via definitiva dal Parlamento italiano.
Nell'agricoltura italiana è schiacciante la presenza di stranieri. Secondo uno studio del Crea, fatto 100 il numero di italiani dediti all’agricoltura nel 1989, nel 2017 scende a 32, mentre quello degli stranieri sale, nello stesso periodo, da 100 a 1.500. A minare ulteriormente lo sviluppo del comparto, le distorsioni del lavoro regolare e dei contratti. Il lavoro a cottimo è particolarmente presente nell’Agro Pontino, "la piccola Nuova Zelanda" dove 9.000 ettari sono coltivati a kiwi. E spesso i braccianti sono pagati in base ai “mazzetti” di ortaggi raccolti: 2 centesimi ogni 10 ravanelli, 3 ogni 15. Tabelle informali convertono le paghe a cottimo in giornate lavorate. Poi c'è il fenomeno dei “falsi braccianti” e delle “imprese intermediatrici fittizie” presente perlopiù nel Foggiano. Imprese che non svolgono attività agricola, ma inseriscono negli elenchi agricoli persone che, pur non essendo braccianti, accedono così illecitamente ai sussidi dell’Inps. Ma è il lavoro grigio la piaga più presente al Sud, basato su un tacito - e spesso obbligato - accordo tra il lavoratore e l'imprenditore che si assicura un lavoro continuativo tutto l'anno, ma non registra mai più di 180 giornate, il minimo necessario ad accedere alla disoccupazione agricola. Paga così meno tasse e costringe il lavoratore in condizione di subalternità.
Segnali positivi a quattro anni dalla "legge anti-caporalato", la 199 del 2016: nel 2019 ad esempio, sono state fatte 5.086 ispezioni, che hanno fatto emergere 5.340 soggetti a violazione, di cui il 51% in “nero”. I provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale sono stati 408, per l’86% (350) revocati a seguito di intervenuta regolarizzazione.
Spagna: braccianti solo se mamme con figli in patria
In Spagna, il sistema di impiego dei braccianti in agricoltura è dominato dalle società di servizi e delle agenzie di lavoro interinale (Ett, nella sigla in spagnolo). La Murcia con i suoi quasi 470 mila ettari di terreni agricoli è nota come la huerta de Europa, l'orto d'Europa. Terza regione in Spagna per esportazioni di frutta e ortaggi, con 2,5 milioni di tonnellate (dietro all'Andalusia con 4,5 milioni, e la Comunidad de Valencia, con 4,05 milioni). I contratti tramite le Ett sono oltre il 55% del totale dei nuovi contratti in tutti i settori, non solo in agricoltura. Ma in quello agricolo c'è il monopolio dell'interinale: sui 490 mila contratti del 2019, 366 mila sono stati fatti tramite Ett, quasi il 75%. I sindacati spagnoli, come CcOo e Ugt, accusano le imprese di non volere oneri e di affidarsi, per questo, alle Ett, che sarebbero obbligate per legge ad applicare il contratto collettivo di settore, cosa che non avviene quasi mai.
La Spagna poi si fa notare per la cosiddetta contratación en origen, cioè il reclutamento diretto di lavoratori in paesi terzi, quasi solo dal Marocco, per la manodopera a Huelva, provincia andalusa delle fragole di cui la Spagna è primo esportatore mondiale. Dal 1999 una pratica in crescita, che ha portato nel 2008 nelle serre andaluse 13.800 lavoratrici, poi la flessione della crisi economica, ma nel 2019 di nuovo 14.411 braccianti. La associazioni dei produttori trattano in Marocco con l'Agenzia nazionale fissando rigide condizioni: solo donne, perché più attente nella raccolta di frutti delicati e meno rivendicative degli uomini, età tra i 25 e i 45, per resistere alle condizioni di lavoro, e solo se con figli minori di 14 anni a carico, così da essere obbligate a tornare in patria a fine stagione. Nel 2016 l'inchiesta di un giornale tedesco rivelerà la diffusione di molestie e abusi sessuali.
Il tutto in un sistema agricolo affetto da quella che l’organizzazione di produttori Coag ha definito «uberizzazione», cioè dalla concentrazione del potere e ricchezza in oligopoli, a cui corrisponde sempre più "un’agricoltura senza agricoltori". Poche grandi imprese infatti - il 6,5% dei proprietari di aziende agricole contro il 94,5% di persone fisiche - catalizza il 42% del valore della produzione. L’impoverimento progressivo degli agricoltori, dunque, li spinge a comprimere dei costi di manodopera bracciantile per mantenere la competitività.
Grecia: 90% di braccianti stranieri, controlli assenti
In Grecia l’indagine parte da Manolada, la regione meridionale nota per la coltivazione di fragole, dove nel 2013 il proprietario di un’azienda fece aprire il fuoco dai suoi vigilanti contro i lavoratori bengalesi in sciopero: 30 feriti, ma lievi condanne e assoluzione per l'imprenditore. Nel Paese il 90% della manodopera del settore agricolo è composto da migranti - almeno 60 mila gli stagionali albanesi - la maggior parte dei quali lavora in nero e senza assicurazione. «Per anni, la distribuzione e gli importatori europei - affermano i ricercatori di Terra! - si sono preoccupati più della soglia di qualità e dei protocolli di produzione, che degli standard sociali e lavorativi. Le maggiori criticità si rintracciano nell’assenza di controlli». Un ex agente del Sepe, l’unità greca di ispezione del lavoro, denuncia la mancanza di un adeguato sistema di verifiche nelle aziende agricole. L’istituto, sotto vigilanza del Ministero del Lavoro, non riesce a controllare molto nella produzione agricola perché non ha gli strumenti adeguati. Tutto dipende dalle dichiarazioni di impiego dei lavoratori, spesso opache. I lavoratori emergono solo quando i datori di lavoro acquistano un voucher ("Ergosimo") assicurativo a loro nome. Ma il sistema telematico del Ministero del Lavoro non è ancora stato attivato.
La debolezza dei controlli permette al sistema agricolo greco di sopravvivere, in una filiera composta da piccole e medie imprese (il 98%) che operano su piccole superfici (una media di 6,8 ettari), esposte alle pressioni di pochi e forti soggetti della commercializzazione e della distribuzione. Inevitabilmente, le pressioni della filiera spinge gli agricoltori a ridurre i costi di produzione, spremendo i lavoratori. Da Terzo mondo le condizioni negli accampamenti: ancora nel 2020 i braccianti immigrati vivono senza acqua corrente, energia elettrica, sistema fognario. In tende per cui devono pagare 20 euro al mese di affitto o, i fortunati dei campi con prefabbricati, anche 30.