Attualità

IL TESTIMONE. Il bancario sfuggito per un soffio alla morte

Enrico Negrotti sabato 12 dicembre 2009
Si ricorda ancora bene dell’enorme boato che squassò la sede della Banca Nazionale dell’Agri­coltura: le ferite, la paura, la fuga precipitosa dall’edificio, lo shock per lo spettacolo im­pressionante scorto nell’atrio devastato. Non ne ha mai parlato per quarant’anni, an­che perché la vicenda lo ha segnato per lungo tempo. La­vorava infatti al primo piano Flavio Nardin, all’epoca im­piegato da nove anni all’Uffi­cio portafoglio, assegni e va­glia, e rimase sconvolto – con i suoi colleghi – dall’attenta­to: ancor più quando ripen­sò di avere scampato la mor- per pochi minuti. «Erano passate da poco le 16 e 30 e mi ero appena seduto alla mia scrivania, dopo aver portato alcuni documenti passando per il salone dove si trovava il tavolo intorno al quale gli a­gricoltori facevano le loro contrattazioni». È il tavolo sotto cui fu lasciata la borsa con l’ordigno: «Ogni venerdì pomeriggio – racconta oggi Nardin – si incontravano presso la nostra sede di Mila­no tanti agricoltori, che ma­gari avevano il conto corren­te presso le nostre filiali dei paesi della campagna mila­nese: ce n’erano – snocciola ancora con precisione e in or­dine alfabetico – ad Abbiate­grasso, Binasco, Gorgonzola, Locate, Magenta, Melzo, Ner- Paullo, Rho, Rosate. Il venerdì pomeriggio, lascian­do talvolta in Piazza Fontana macchine mungitrici o trat­tori da vendere, contrattava­no merci e attrezzature riu­nendosi, sia fuori dalla ban­te ca, sia dentro, nel grande atrio circolare dove era stato collo­cato un tavolo, mentre tutt’intorno si trovavano gli sportelli dei vari servizi ban­cari ». Improvvisa si verificò la tragedia: «Vidi un grande ba­gliore invadere il locale e sen­tii un terribile scoppio scuo­tere l’ambiente: tutte le ve­trate dei nostri uffici che si af­facciavano sull’emiciclo in­terno andarono in frantumi. Milioni di schegge di vetro fu­rono proiettati in tutte le di­rezioni. E la luce saltò». Im­mediato si diffuse lo scompi­glio, il panico prese tutti gli impiegati: «Qualcuno diceva che era scoppiata la caldaia, tutti cercavano di guadagna­re l’uscita, ci fu una corsa ver­so la scala interna che con­duceva al salone, dove ci a­spettava però uno spettaco­lo terribile: pur nella semio­scurità – era una giornata gri­gia – si vedeva sangue dap­pertutto e poi corpi, orren­viano, damente mutilati, sparsi per tutto l’atrio». Lo spavento cre­sce, e la consapevolezza che era accaduto qualcosa di ve­ramente terribile: «Mi ritro­vai in strada senza cappotto né cappello (avevo lasciato anche l’orologio sulla scriva­nia) e come un automa mi di­ressi in una portineria per te­lefonare a mia moglie, a casa con due figli piccoli, e tran­quillizzarla. Ma lei, che era i­gnara dell’accaduto, trovò strano che tornassi a casa in­vece di fare un po’ di lavoro straordinario». Per tornare a casa, a Precot­to, doveva prendere la me­tropolitana: «Non ricordo co­me convinsi l’agente della stazione Duomo a lasciarmi passare così com’ero, senza biglietto: gli dissi che c’era stata un’esplosione e dovevo tornare a casa». Il signor Nar­din però non si vedeva allo specchio: l’agente Atm l’avrà visto sconvolto e ferito come lo notò la moglie, che sbiancò appena il marito si presentò alla porta di casa, in maglio­ne, sanguinante alle mani e alla testa, sguardo perso. Dai notiziari della sera, crebbe la consapevolezza che non si e­ra trattato di una disgrazia: «Mi vennero i brividi a ricor­dare come ero passato di fianco al punto dell’esplosio­ne pochi istanti prima...». E il senso di timore si protrasse a lungo: «Nei mesi successivi, il nostro ufficio fu spostato nella parte posteriore dell’e­dificio, con le finestre su via Larga: di lì, nei primi anni Set­tanta, si vedevano spesso i di­sordini tra polizia e gruppi di manifestanti, ma noi abbas­savamo subito le tapparelle perché temevamo sempre qualche pallottola vagante». Il buco causato dalla bomba