L’Italia è in riserva, e ancora non se ne è resa conto. A lampeggiare in maniera sinistra è il led rosso che segnala come il suolo agricolo – la buona terra coltivabile che deve garantirci il pane quotidiano – stia letteralmente scomparendo sotto i nostri piedi, fagocitato giorno dopo giorno dalle voraci colate di cemento, dalle dilaganti distese di asfalto. Crescono le città che pure si svuotano al loro interno, si gonfiano a dismisura i paesi dell’hinterland, si estendono come amebe nuovi villaggi, nuovi quartieri ( « immersi nel verde » , promettono immancabilmente i signori del cemento), nuovi centri residenziali «dove vivere con i vostri bambini (salvo che poi di bambini ce ne sono sempre meno) e intanto si contrae in maniera paurosa lo spazio disponibile. Se continua così tra qualche decennio si smetterà di costruire: non si saprà dove farlo. Così il led della riserva segnala che tra un po’ non si saprà più dove viene praticata l’agricoltura, e sarà interessante vedere allora chi avrà il coraggio di protestare per i prodotti alimentari importati dalla Cina o da altre aree dell’Estremo Oriente. Cinque milioni di ettari. Sapete cosa sono cinque milioni di ettari? Sono una estensione di territorio quasi equivalente a due volte la superficie di una regione come la Lombardia ( 24 mila chilometri quadrati, due milioni e 400 mila ettari) e rappresentano l’entità della ruberia, il malloppo in termini di terreni coltivabili che mani avide hanno scippato all’agricoltura negli ultimi 40 anni. Sotto condomini, villette, capannoni, piazze, strade, tangenziali, autostrade, svincoli, rotatorie e via dicendo è scomparso un quarto della superficie sulla quale il settore primario poteva contare meno di mezzo secolo fa. Oggi - emerge da uno studio condotto per conto della Coldiretti dal professor Angelo Frascarelli - l’agricoltura made in Italy dispone di soli 12,7 milioni di ettari di suolo coltivabile, dei quali appena il 30 per cento in aree di pianura, le più produttive e capaci di assicurare rese redditizie. Non c’è più terra, e allora succede ciò che è inevitabile quando un bene diventa raro e conteso: il prezzo delle superstiti aree agricole si impenna e tocca livelli da capogiro. La legge della domanda e del-l’offerta non perdona, così capita che si possano sfiorare o superare i 500 mila euro all’ettaro in zone o per situazioni particolarmente appetibili. E altrove? In Italia il valore medio è indicato attorno ai 17 mila euro, ma è cifra da prendere con le pinze: anche nel corso di un anno critico come il 2009 il prezzo dei terreni ha continuato a crescere attestandosi su livelli che vanno dai 38 ai 72 mila euro per ettaro, quando l’Europa viaggia dai 1000 di alcuni Paesi dell’Est ai 34 mila dell’Olanda che ha strappato ogni metro di suolo al mare. Poca e cara, carissima la terra coltivabile. «Il terreno è un costo per le imprese agricole che devono crescere e svilupparsi, e l’aumento delle quotazioni rischia di trasformarsi in un ulteriore onere che si somma a quello della stretta creditizia », lamenta il presidente della Coldiretti Sergio Marini prima di sottolineare l’urgenza di misure antispeculative «soprattutto tese a favorire l’inserimento dei giovani nell’attività rurale». Sono 1 milione e 700 mila le aziende In un numero crescente di terreni vengono installati pannelli fotovoltaici: così l’energia alternativa «sfratta» l’agricoltura oggi operanti su una superficie agricola utilizzata di 12 milioni 707mila ettari. Secondo l’ultimo censimento di settore si contano 2 milioni 576 mila addetti, e il dato esprime la misura di come sia cambiato il Paese dalla fine della seconda guerra mondiale, quando di agricoltura viveva circa il 50 per cento degli italiani. Ma non è finita: dal momento che le quotazioni di mercato dei terreni risultano proibitive per chi voglia intraprendere ex novo questa attività favorendo il ricambio generazionale (i giovani sono costretti a ricorrere all’affitto quale unica alternativa al possesso diretto dell’azienda), dobbiamo probabilmente prepararci a convivere con un fenomeno che segnerà la trasformazione epocale, l’alterazione genetica dell’agricoltura che conosciamo. Con ripercussioni sull’antropologia dell’agricoltore. È sempre l’organizzazione cui aderisce la maggior parte dei coltivatori diretti a lanciare l’allarme dopo che dall’indagine commissionata lo scorso ottobre alla Swg ha avuto conferma di un dato preoccupante: oggi chi acquista la terra - o meglio, chi riesce ad acquistarla - non è più, nel 42 per cento dei casi, un imprenditore agricolo. E’ semplicemente un signore (o più spesso un’entità societaria) che dispone di qualche milione di euro, un investitore scottato dai crolli in borsa e deluso dagli irrisori rendimenti dei bot che sceglie di parcheggiare il denaro in un appezzamento, in una cascina o in una prestigiosa tenuta. A seconda dell’entità delle sue finanze, ovviamente. La ricerca Coldiretti-Swg indica con chiarezza che i terreni agricoli battono ormai l’oro nella classifica degli investimenti giudicati più sicuri dagli italiani e sono collocati a pari livello dei conti correnti a maggiore remunerazione e appena al di sotto della casa, che degli investimenti risulta di gran lunga in testa alla graduatoria. Crisi finanziaria, corsa al bene-rifugio, speculazioni sui terreni agricoli le cui quotazioni schizzano alle stelle minacciano la sopravvivenza delle aziende e frenano la creazione di nuova imprenditorialità in un settore che vede numericamente prevalere addetti dai capelli grigi, avanti con l’età, talvolta refrattari, se non ostili, all’innovazione. Il 37,9 per cento ha superato i 65 anni, gli infraquarantenni sono appena 269 mila. In questo contesto rimarrebbe per gli aspiranti nuovi agricoltori la scorciatoia dell’affitto a canoni sempre più elevati, e sarebbe comunque un ritorno al passato: il padrone assenteista, l’affittuario legato ad un contratto che impone oneri rilevanti ed è sottoposto Coltivazione idroponica di pomodori a scadenze temporali che condizionano la progettualità. Ben altro che la soluzione migliore per fare un’agricoltura moderna. Intanto quel led rosso lampeggia sempre più insistentemente.