Cronache choc dai centri libici. «Uccisi dalla tbc e perseguitati perché cristiani»
Sempre più malati di tubercolosi nel centro di detenzione di Zintan, in Libia. Ne abbiamo parlato lo scorso 21 giugno e la situazione da allora sta degenerando. Solo Medici senza frontiere sta aiutando i 654 detenuti sub-sahariani. L’organizzazione sta distribuendo loro tavolette multivitaminiche e farmaci per la tubercolosi soprattutto, perché vivendo giorno e notte ammassati le possibilità di contagio sono elevate. DA settembre sono morte 22 persone di stenti e tbc.
Di Zintan, circa 160 km a sudovest di Tripoli, e del sovraffollamento del centro, probabilmente quello in condizioni peggiori in Libia in questo momento, se ne parla da quasi 2 mesi grazie alle immagini e alle testimonianze video e audio raccolte da operatori umanitari e attivisti attraverso i social e inviate con gli smartphone usati di nascosto dai prigionieri.
Il 10 giugno scorso un filmato di una decina di minuti girato dai detenuti e riproposto da Channel 4 in Gran Bretagna e dalla tv Al Jazeera nel mondo arabo, oltre che da numerosi media internazionali, ne ha mostrato le condizioni igieniche e sanitarie inumane del centro un hangar nel deserto della Libia occidentale pieno di vermi, tra spazzatura ed escrementi. La protesta pacifica e le immagini stomachevoli hanno facilitato l’Acnur nella evacuazione di 96 persone vulnerabili. Ma i detenuti puntano il dito contro le agenzie umanitarie dell’Onu, dicendo di aver nel frattempo effettuato colloqui solo con 40 persone e poi di non essersi più fatte vedere L'Agenzia dell'Onu per i rifugiati, ha ribadito affermando di non aver potuto accedere a certe parti del centro, gestito da una delle molte milizie libiche.
Siamo entrati in contatto dal 20 giugno con un gruppo di prigionieri del Corno d’Africa, eritrei ed etiopi. I quali denunciano che, per la loro fede, ortodossi e cattolici sono oggetto di persecuzioni e violenze supplementari. Pregare nei momenti di disperazione è difficile in questo inferno. E anche da morti i cristiani sono oltraggiati. Infatti i cadaveri dei 'crociati' restano insepolti nelle celle frigorifere perché non possono venire sepolti nei cimiteri islamici.
Yoannes, nome di fantasia per non esporlo a rappresaglie, ha poco più di 20 anni e viene da Barentu, Eritrea.
«La nostra condizione sta peggiorando – racconta – mangiamo poco una volta al giorno, pasta o cous-cous, e l’acqua è scarsa e imbevibile somministrata da secchi con una ciotola per tutti. I bagni sono fuori uso, usiamo i secchi per i bisogni. Molti di noi sono i richiedenti asilo che stavano nel centro di Gharyan nell’ottobre 2017. Poi siamo finiti a Zintan 9 mesi fa dopo i primi scontri. Un anno e nove mesi in condizioni orribili. Parecchi sono stati catturati in mare a Sabhrata dai libici e riportati qui».
Le condizioni di detenzione hanno ucciso in 9 mesi 22 rifugiati. «Sono stati ammazzati da diverse malattie non curate. Di questi, 17 sono eritrei, tre somali e due gambiani, padre e figlio. Prima uno, poi l’altro. E i libici, dopo averli lasciati morire senza curarli, discriminano anche i morti. Perché i cadaveri dei 17 eritrei cristiani sono ancora insepolti nella cella frigorifera». Per Yoannes i cristiani sono particolarmente discriminati a Zintan. «Se sei cristiano ti picchiano, ti schiaffeggiano ti tagliano le collane con le croci e le buttano via, non le vogliono vedere. Invece i musulmani prigionieri, ad esempio i somali, pur in questo schifo sono trattati meglio e lasciati più liberi. E se un musulmano muore a Zintan deve essere sepolto. La polizia ci chiama spregiativamente ebrei. Non sanno nemmeno chi siamo».
E molti sono gli ammalati di Tbc nelle galere libiche secondo le testimonianze di rifugiati e operatori umanitari. Come a Zawya -che all’epoca coloniale chiamavano Zavia e che arrivò a ospitare fino a 2.000 italiani - città sulla costa mediterranea, al centro della piana della Gefara circa 50 km a ovest di Tripoli. La conferma arriva, prima che la linea di messenger si interrompa, da Awet, prigioniero eritreo. Conferma che anche li 550 detenuti provenienti in prevalenza dal Corno d’Africa, sono allo stremo.
«Viviamo ammassati - racconta -non abbiamo spazio. Ci sono anche donne e ragazze tra noi: Il capo delle guardie è molto duro e ci rende la vita impossibile. Si chiama Osama». La prova che più che mai è urgente un corridoio umanitario europeo che ponga fine all’orrore.