Attualità

INTERVISTA A FERRAROTTI. «I notiziari bollettini di guerra. Ma non anni di piombo»

Roberto I. Zanini martedì 15 dicembre 2009
Raffreddare una situa­zione «che si è surri­scaldata senza moti­vi reali». Naturalmente «non siamo alla vigilia di una nuo­va stagione di terrorismo. Non mi sembra ci siano le condizioni ideologiche. Stia­mo vivendo, piuttosto, una situazione di tensione, di li­tigio, di frizione tipica di un condominio, con i media che teatralizzano, enfatizzano». Come in un condominio, però, « se non c’è un’inver­sione di tendenza, puo acca­dere che persone psicologi­camente deboli individuino in qualcuno l’obiettivo da e­liminare ». Franco Ferrarotti, uno dei 'grandi vecchi' della socio­logia italiana, si dice «ottimi­sta » e convinto che non si possa tornare agli anni di piombo che lui, professore all’università di Trento negli anni sessanta, ha visto for­marsi nelle loro basi teoriche. L’aggressione patita da Silvio Berlusconi è comunque da individuare come un segna­le d’allarme, al quale occor­re dare una risposta imme­diata e sicura, che parta dal­la politica, dalle istituzioni ma soprattutto dai media. Allora ha ragione chi lancia appelli alla moderazione e chi dice che gran parte del degrado nella società e nel­la politica è dovuto ai mass media? Vede, i media non solo co­municano ma enfatizzano. Hanno una tendenza a tea­tralizzare ogni notizia. A suo tempo ne parlai con M­cLuhan e anche lui ne aveva in qualche modo ricono­sciuto la pericolosità. Per co­me è strutturata, certa infor­mazione è di per se drogata, deforma ed esalta. Si potreb­be dire che i media di oggi non mediano. Resta il fatto che con tv e in­ternet bisogna fare i conti. Ma bisogna anche ricono­scerne gli effetti negativi. Un conto è la logica della lettu­ra e del ragionamento, altra è la logica dell’audiovisivo, perché l’immagine deve es­sere sintetica e fulminante. La natura stessa del media favorisce l’emotività, non il raziocinio. La fibrillazione costante che ne scaturisce non è tanto un fatto politico, quanto di psicologia sociale. L’operatore del media deve essere consapevole delle conseguenze. Vuol dire che il gesto contro Berlusconi è frutto di una campagna mediatica? Non esattamente. Dico, per esempio, che i nostri noti­ziari televisivi sembrano dei bollettini di guerra che ac­crescono una sensazione di incertezza che non ha basi oggettive. Oggi l’economia i­taliana, lo dice l’Ocse, si svi­luppa più e meglio di quella di altri Paesi europei. Certo si sente ancora la crisi, c’è di­soccupazione, ma ci sono anche segnali di speranza. La politica, però, ci mette del suo. Da questo punto di vista vo­glio dire che ho apprezzato la solidarietà espressa a Ber­lusconi da tutte le parti poli­tiche e sociali, così come gli esponenti politici che sono andati a trovarlo in ospeda­le. Per il resto risulta eviden­te che il bipolarismo favori­sce il personalismo del lea­der. E la personalizzazione del potere invita allo scam­bio di insulti personali inve­ce che al confronto sulle i­dee. E così, grazie all’enfasi dei media, l’avversario si tra­sforma in un nemico. Io ho fi­ducia perché ritengo che gli italiani siano stati vaccinati dagli anni di piombo. Ma se il dibattito politico e la cul­tura dei media non ripercor­rono i temi ideali del con­fronto, se non c’è un’inver­sione di tendenza, la situa­zione potrebbe precipitare. E questo lo dico da persona che si colloca a sinistra dello schieramento. Perché questa precisazione? Semplicemente perché non posso accettare a scatola chiusa tutti gli attacchi per­sonali agli avversari della si­nistra, le indiscrezioni da bu­co della serratura. In questo modo il dibattito politico è destinato a scadere nel sen­sazionalismo e nel pettego­lezzo. Tutto questo può inci­dere sulle persone psichica­mente più deboli, che pos­sono individuare in un lea­der politico la sintesi del po­tere che schiaccia e prevari­ca e quindi un obiettivo, un simbolo da eliminare. Ma, ri­peto, non credo si possa par­lare di nuova stagione terro­ristica. Una politica di questo tipo rischia di non essere più rap­presentativa.È un rischio evidente, al di là del risultato elettorale. La rappresentanza politica può non essere più rappresenta­tiva, scadere a semplice rap­presentazione, diventare tea­tro, parlare una lingua lonta­na dalle esigenze della gen­te. Allora si crea un vuoto che in qualche modo deve esse­re riempito, si lascia spazio alla casualità e può succede­re di tutto. È tempo di correre ai ripari? La politica deve privilegiare il confronto sulle idee. I media devono smettere di enfatiz­zare valori strumentali come bellezza, denaro, potere, no­torietà come se fossero valo­ri finali. Un campo in cui la Chiesa può e deve insegnare molto, perché in questo mo­do si uccide la progettualità, la speranza nel futuro.