Terni. Parlano le madri di Gianluca e Flavio: «I nostri figli, morti per inganno»
L’ultima buonanotte di Flavio, il suo bambino di 122 chili. L’ultimo bacetto di Gianluca alla mamma, prima di mettersi il pigiama e infilarsi nel letto. Due madri e quella terribile mattina del 7 luglio. Due amici per sempre, che non torneranno più. Non ritorneranno le partite di rugby e l’orgoglio di servir Messa, i viaggi a Medjugorje e le vacanze insieme, tutte le estati, a Ostia. Flavio Presuttari, di 16 anni, e Gianluca Alonzi, di 15, sono morti nel sonno, dopo aver assunto una sostanza ancora sconosciuta. Loro credevano fosse codeina. Chi gliel’ha venduta, per 15 euro, sostiene che si trattasse di metadone.
Gli esami tossicologici saranno noti a fine settimana. La madre di Gianluca, Silvia Jacaroni, è un medico con un lungo curriculum di studi. Ha stretto al cuore il suo Flavio negli ultimi minuti di vita e si è resa subito conto che non si trattava di una disgrazia. «Lo abbracciavo e usciva sangue dal naso e dalla bocca, segno che era completamente scoagulato, ed è un effetto che non provoca il metadone». Al suo fianco l’amica Maria Luisa Peralta, mamma di Gianluca. Anche lei non trova pace, ma ripensando al pusher indagato per la morte dei giovani, fa appello alla fede e con una voce strozzata da giorni di pianto ammette: «Cristianamente, lo perdono». Due mamme strappate via dalla droga.
Due famiglie devastate da una piaga silenziosa e silenziata in questa città apparentemente tranquilla, ma che negli anni ha scalato le classifiche delle morti per overdose, classifiche in cui la componente dei minorenni assume uno spazio sempre più inquietante. Di «responsabilità collettiva» ha parlato il procuratore della Repubblica di Terni, Antonio Liguori. Smarrimento generale: è il concetto usato dal vescovo di Terni-Narni-Amelia, monsignor Giuseppe Piemontese. Le indagini stanno cercando di ricostruire sia il ruolo di Aldo Maria Romboli, il pusher, che la diffusione delle droghe tra i giovanissimi della città umbra: i giovanissimi sarebbero divenuti talmente competenti da interpretare l’origine di un malore dei ragazzi, la sera prima del decesso, dal colore del vomito; violaceo nel caso della codeina e biancastro nel caso del metadone. La prima è la sostanza maggiormente in voga tra i cultori del trap. «Li hanno ingannati» insiste Silvia, che sospetta un piano per togliere di mezzo due componenti della comitiva di largo Mezzetti «contrari alla circolazione di sostanze».
Cattive compagnie ancora senza contorno, diluite nel silenzio dei coetanei. Il procuratore ha precisato che non esistono «responsabilità genitoriali» perché i due adolescenti erano costantemente controllati dalle rispettive famiglie. Ma Silvia non ha peli sulla lingua. «Non si muore di overdose se non sei drogato, sempre che non ti facciano morire». La storia di Flavio e Gianluca non è quella di due drogati. È la storia di un atleta e di un chierichetto, di un ragazzone che aiutava le vecchine a salire sulla collina di Medjugorje e del suo amico che pregava per tutti.
Due ragazzi che come tanti si ritrovavano sulle panchine di Largo Mezzetti, a due passi da via Liutprando e dai palazzi dello spaccio, che circondano la parrocchia di San Giovanni Battista. È qui, davanti alla statua di San Francesco lasciata dai cappuccini che un tempo gestivano la parrocchia, che incontriamo le due madri. Fanno parte entrambe del Cammino neocatecumenale. Si sono conosciute così. Così si sono conosciuti i due ragazzi. La prima Comunione, le scuole medie insieme, le convivenze – ossa i ritiri spirituali del Cammino – e i pellegrinaggi: due ragazzini che non si possono definire né soli né sbandati. «Ma che possono aver commesso una leggerezza o essere stati ingannati» taglia corto Silvia. La quale non nega le difficoltà di crescere due figli dopo una separazione, l’annullamento del matrimonio e il trasloco da Roma a Terni. «Flavio era introverso, o per meglio dire aveva una predisposizione intimistica. L’adolescenza è un momento difficile per tutti e anche loro si erano allontanati dalla parrocchia per frequentare i compagni di classe, ma Flavio non aveva un atteggiamento ostile verso Cristo e verso il Cammino ».
La fede è centrale nell’esperienza familiare di Silvia. Il ragazzo, ci racconta, «è un miracolato, perché aveva un nodo al cordone ombelicale, 'visto' da un sacerdote di Belluno e che le ostetriche hanno effettivamente rinvenuto al momento del parto». Ricordi dolci, che si mescolano all’amarissima attualità. Perché si indaga anche sui rapporti tra i due minorenni e il pusher, per capire se la cessione del metadone sia stata un caso isolato. Gli inquirenti stanno esaminando il computer di Flavio per capire il legame con il mondo del trap, il genere musicale amato dai più giovani, divenuto famoso dopo la tragedia di Corinaldo (6 morti e 59 feriti al concerto di Sfera Ebbasta) e pericolosamente contiguo al mondo della droga. Flavio la ascoltava e componeva brani che condivideva con il padre Fabio.
«Durante i nostri viaggi Terni-Roma – racconta il genitore – mi faceva spesso ascoltare pezzi il cui testo, estrapolato dalla ritmica ossessiva, era un continuo inneggiare all’uso di droghe come correttivo al disagio sociale e personale. Il soggetto fermato si definiva deejay e rapper. Non escludo che questo fattore, unitamente alla prossimità all’abitazione di Gianluca, possa essere stato il fattore di 'aggancio'. La purple drank, tanto in voga tra i musicisti rap/trap, è una bevanda a base di codeina e potrebbe essere stato ciò che i ragazzi cercavano o che è stato loro offerto. Questo aspetto è ancora oggetto d’indagine e, senza il risultato tossicologico, resta solo un’ipotesi senza alcun riscontro testimoniale se non le dichiarazioni del sospetto». Questi tasselli aggiungono dei dettagli ma non completano il puzzle. Certamente, il ritratto delle vittime che ne offre chi le conosceva resta lontanissimo dalle ombre di via Liutprando.
«Avevano appena superato gli esami per avviare un’attività di volontariato con i bambini, insieme all’Ordine di Malta» spiega la madre di Flavio. E Maria Luisa rievoca l’orgoglio di Gianluca nel portare la candela della celebrazione eucaristica «che, diceva, illumina il mondo intero »; oppure il turibolo, «perché il fumo che va in Cielo, raccontava, porta via i peccati di tutti». Gianluca aveva ereditato dalla mamma una fede forte e semplice: pregava per tutti e quando passava un’autoambulanza recitava subito un’Ave Maria per chi stava soffrendo. Durante un viaggio ad Assisi, racconta la signora Peralta, «Gianluca aveva detto di aver sentito la chiamata al sacerdozio, ma non gli abbiamo dato peso, perché era ancora un bambino».
Aveva cinque anni quando litigò con un amichetto perché gli aveva stracciato un santino. «Flavio, per contro, non parlava molto della propria fede – osserva Silvia – ma pochi giorni prima di morire mi aveva comunicato, piuttosto addolorato, di aver perso la medaglia miracolosa che portiamo tutti, in famiglia». Uniti nella vita e nella morte. Se Maria Luisa ha finito le lacrime e si rifugia in Gesù e nel Cammino, Silvia pensa a un’associazione apolitica che vigili sugli adolescenti, come a Foligno, ed è convinta che i ragazzi non abbiano assunto metadone.
Dopo essere stati male la sera prima, entrambi si sono coricati senza problemi apparenti. Silvia ha scoperto che Flavio stava morendo quasi per caso, andandolo a svegliare: «Piangevo e l’abbracciavo e c’era già il rigor mortis: come lo abbracciavo, comprimendogli la gabbia toracica, usciva sangue rosso vivo dal naso e bocca oltre la schiuma. Un effetto simile lo producono la stricnina o il veleno per topi, non il metadone, che fa venire il sonno ed eventualmente una depressione respiratoria e poi l’arresto cardiaco; ma non scoagula il sangue». Quando Maria Luisa ha aperto la porta della cameretta, Gianluca non respirava già più. Così se n’è andato quel suo bambino che sognava di diventare prete e di giocare a rugby. Come il suo amico Flavio, con il suo amico Flavio.