Il rapporto. I medici italiani? I peggio retribuiti d'Europa
Si accentua la differenza di retribuzione tra i nostri medici e quelli di altri Paesi europei
I nostri medici sono tra i più poveri d’Europa. Il confronto con i camici bianchi delle altre nazioni del Vecchio continente è impietoso, visto che un professionista dipendente del Servizio sanitario nazionale guadagna in media il 76% in meno di un medico olandese, il 72,3% in meno di un tedesco, il 54,8% meno di un irlandese, il 38,4 in meno di un danese. È quanto emerge dal rapporto di Fnomceo (la Federazione nazionale degli Ordini dei medici) e Censis dal titolo “Il necessario cambio di paradigma nel Servizio sanitario nazionale: stop all’aziendalizzazione e ritorno del primato della salute”, presentato a Roma in occasione del convegno “Dall’economia al primato della persona”.
A sbirciare nella corposa analisi, si scopre che la retribuzione annua lorda di un medico italiano (a parità di potere di acquisto) ammonta a circa 109 mila dollari. Più in basso di noi Slovenia (108 mila), Francia (105 mila), Repubblica Ceca (81 mila), fino ad arrivare alla Polonia dove i dottori non superano la soglia dei 47 mila dollari. Dal rapporto viene fuori che nel Belpaese, a differenza di quanto si pensi, i dottori non mancano: nessuna carenza, o, per dirla con gli analisti che hanno redatto l’analisi, «non c’è un reale shortage di medici poiché sono 410 per 100 mila abitanti, dato superiore a quello di Paesi come Francia (318 medici per 100 mila abitanti) oppure Olanda (390 medici per 100.000 abitanti). Sono invece non attraenti nel servizio sanitario le condizioni di lavoro e le retribuzioni contrattuali», si legge nel report. Infatti, tra il 2015 e il 2023 la retribuzione media ha subito una contrazione in termini reali del 6,1%, nonostante un incremento in termini assoluti di circa 7 mila euro annui. E a proposito di condizioni di lavoro: dal 2012 al 2022 «è aumentato in sanità il ricorso al lavoro a tempo e a quello interinale (dal 2012 al 2022 un balzo del +75,4%)». La spesa per un impiego a tempo determinato, per consulenze, collaborazioni, interinale e altre prestazioni di lavoro sanitarie e sociosanitarie «provenienti dal privato, è stata pari a 3,6 miliardi di euro nel 2022, con un incremento del +66,4% rispetto al 2012».
E gli italiani cosa pensano del sistema sanitario? Il rapporto indaga anche su questo, ed evidenzia che sono ormai «9 su 10 i cittadini convinti e preoccupati del fatto che il vincolo di bilancio è stato troppo a lungo il re incontrastato delle decisioni relative alla spesa pubblica per la sanità». Ben l’85% dei connazionali ritiene ora opportuno investire per restituire attrattività al lavoro degli operatori sanitari, evitando che contratti precari e basse retribuzioni determinino una fuga all’estero di medici e infermieri. «Le diffuse esperienze degli italiani, di liste di attesa molto lunghe per l’accesso a prestazioni sanitarie nelle strutture pubbliche o del privato accreditato, e il relativo inevitabile ricorso al privato puro per accorciare i tempi di accesso, o anche quelle in strutture e servizi intasati e non in linea con gli standard attesi di qualità, hanno reso drammaticamente attuale l'urgenza sociale di un diverso approccio alla sanità», ricorda la Fnomceo della nota di commento all'indagine.
«La necessità di intervenire rapidamente attraendo nuovi medici e trattenendo quelli in servizio – avverte la Federazione degli Ordini professionali – è resa più stringente dal fatto che negli ultimi 24 mesi, direttamente o tramite familiari, il 44,5% degli italiani ha sperimentato situazioni di sovra-affollamento in reparti ospedalieri o strutture sanitarie», come risulta dal report. «Sono esperienze condivise dal 44,7% nel Nord-Ovest, dal 39% nel Nord-Est, dal 45,5% nel Centro e dal 46,8% al Sud e nelle Isole». Il moltiplicarsi di aggressioni ai medici, poi - è l’indicazione dell’indagine -, non è altro che la trasformazione del medico stesso nel capro espiatorio di contesti difficili e di eventuali prestazioni non in linea con le aspettative. Secondo l’84,3% degli italiani, «le aggressioni sono un’emergenza su cui occorre intervenire con provvedimenti urgenti ed efficaci».
Fin qui lo studio. Ma in queste ore c'è un altro fronte caldo per la nostra sanità, ed è quello del rapporto tra le Regioni e l'esecutivo di Giorgia Meloni sulle liste di attesa: la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, a maggioranza (fatta eccezione per la Regione Lazio), ha espresso parere negativo al decreto legge sulle liste d'attesa, e ritiene «imprescindibile lo stralcio dell'articolo 2, la cui attuale formulazione è quanto meno lesiva del principio di leale collaborazione». Per questo gli enti locali propongono una modifica dell'articolo, «tesa a migliorare il testo del decreto e a renderlo rispettoso delle competenze e delle prerogative di ciascun livello istituzionale come previsto dalla Costituzione». L'articolo 2, scrivono nella relazione le Regioni, «prevede che a fronte delle segnalazioni di cittadini, enti locali ed associazioni di categoria (che dovrebbero essere innanzitutto trasmesse alle Regioni), l'Organismo di verifica e controllo sull'assistenza sanitaria possa accedere nelle Aziende sanitarie, scavalcando le Regioni e le Province autonome, anche avvalendosi del supporto dei Carabinieri per la tutela della salute (anziché delle Regioni stesse)».