Attualità

Le storie della vergogna. I forzati delle campagne. Tante ore, pochi euro e la paura

Antonio Maria Mira sabato 17 ottobre 2020

Tante le storie di sfruttamento raccontate nel Rapporto, raccolte dagli operatori della Flai-Cgil negli incontri coi lavoratori. Come quella di una bracciante albanese: «Lavoro da due anni in un’azienda che produce in serra ortaggi e rucola. Non ho un contratto di lavoro né un permesso di soggiorno: mi è scaduto due anni fa e non sono ancora riuscita a trovare un datore di lavoro che mi assuma con contratto regolare. Prendo 20 euro al giorno, lavoro 10-12 giorni al mese in un’azienda e 10-15 in un’altra, sabato e domenica in una terza per le pulizie... A fine mese non supero quasi mai i 600 o 650 euro».

Ancora una donna, una lavoratrice marocchina: «Lavoro con un caporale che recluta solo donne e le porta in un’azienda che produce fragole e poi insalata pregiata. Ci tratta male. Prende 6 o 7 euro per il trasporto per fare poco meno di 5 km; se si lavora più di 8 ore pretende altri 3 euro per l’attesa fuori orario. Su 30-35 euro al giorno di guadagno bisogna dunque togliere circa 7 euro. Il datore sa come ci tratta il caporale, ma non gli interessa. Siamo andate al sindacato a spiegare questa situazione, ma dopo aver ascoltato cosa ci consigliavano le mie colleghe hanno desistito a inoltrare la denuncia. La paura è molto forte. La paura di non lavorare ti rende incapace di reagire».

La terza storia la riferisce una sindacalista addetta all’ascolto ed è quella di un bracciante del Mali ospite di un Centro d’accoglienza a Pontecagnano; l’uomo lavorava nelle campagne circostanti e racconta che da 4 o 5 mesi non veniva pagato nonostante continuasse a lavorare per circa 10 ore al giorno. «Leggendo la busta paga scoprimmo che erano conteggiate soltanto tre giornate e l’ammontare non superava i 140 euro. Abbiamo chiamato l’azienda per capire cosa fosse accaduto e la risposta è stata che l’operaio aveva chiesto di essere pagato in nero, ma ciò era completamente falso, una risposta inventata: la parola del bracciante contro quella del datore di lavoro». «Di queste situazioni ne abbiamo molte: buste paga con un ammontare inverosimile di 100, 150 o 300 euro corrispondenti a 2, 3 o 5 giornate registrate a fronte di 28 o 30 effettivamente lavorate. I braccianti le firmano e quindi diventano motivo di legittimità dell’avvenuto saldo retributivo. Solo dopo si rendono conto che sono stati truffati».

L’ultima storia riguarda una decina di lavoratori rumeni fatti venire direttamente dal Paese d’origine, con un volo per Bari e poi in furgone fino a Battipaglia. Il salario promesso era molto alto, più di quanto prenderebbe un operaio specializzato in agricoltura: da 4 a 5mila euro a fine stagione, ma era ovviamente un inganno per convincere i rumeni ad espatriare e lavorare tre mesi nella raccolta del pomodoro. All’arrivo ai braccianti vengono tolti i documenti, l’alloggio è un casolare diroccato in cui si dorme sui cartoni degli imballaggi. Un bidone serve da contenitore dell’acqua per bere e lavarsi; il cibo viene portato dal connazionale che ha fatto arrivare gli uomini su richiesta di un imprenditore italiano. Ma dopo tre mesi la paga è di 190 euro a testa per ciascun mese di lavoro di 10 ore giornaliere: la stessa mensilità che avrebbero preso lavorando nel loro Paese. Un altro connazionale li porta allora al sindacato e parte la denuncia; ma i malcapitati non sanno neppure il nome del mediatore che li ha ingaggiati e nemmeno il nome dell’azienda che li ha occupati in quelle drammatiche condizioni... Persino il locale commissariato di polizia si mobilita, portando loro il cibo preparato dalla mensa degli agenti.