Intervista. Il vescovo Nosiglia: i clochard? Nella mia casa. A Torino chiedo uno scatto
L'arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia
L’ala dell’Arcivescovado che ha ospitato i Papi in visita accoglie in questi giorni clochard e persone rimaste senza casa. È una cosa che colpisce l’immaginazione. «Da tempo vivono qui una trentina di persone, italiani e immigrati. Provengono da situazioni difficili in famiglia, o sono rimaste senza abitazione – spiega l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia –. In questi giorni di grave emergenza mi è sembrato doveroso offrire un segnale e un esempio ancora più chiari. Per questo mi sento di chiedere alle parrocchie e alle comunità religiose, ma anche alle famiglie private che ne hanno la disponibilità, di aprire ancor più le porte delle loro case, per sistemazioni anche temporanee». Dopo la morte di due clochard a causa del freddo, chiede il «coraggio di fare un passo in più» l’arcivescovo di Torino, «lungo un cammino che è già ricco di scelte generose e di disponibilità. Il profeta Isaia d’altronde ci domanda esplicitamente di “introdurre in casa i miseri senza tetto”».
L’emergenza sociale che resta irrisolta: 51mila sono i senzatetto a rischio freddo in Italia, costretti a dormire sui marciapiedi, nelle stazioni e sotto i portici - Ansa
Pesano, queste morti? Sono una ferita aperta. Anche perché ognuna di queste vicende, quando viene alla luce, fa emergere una lunga catena di dettagli che hanno sempre lo stesso colore: solitudine, abbandono, scarsa attenzione alle vite delle persone. Torino è una città molto generosa, ci sono migliaia di volontari che ogni giorno e ogni notte lavorano senza bisogno di farsi pubblicità. Non si può dire che la città non si sia attrezzata, destinando risorse anche importanti alle persone con problemi. E non possiamo neppure prendercela con i protocolli di accoglienza e cura negli ospedali. Ma, di fronte alle morti per abbandono, ci viene buttata in faccia una realtà terribile, ben più grande dei nostri sistemi di aiuto: se non c’è comunità fra noi, vince sempre l’indifferenza. Io sento il dovere di alzare la voce perché non possiamo immaginare di costruire una città nuova, un progetto di rilancio di Torino se non ripartiamo dalla condizione di que- sti fratelli ultimi. So benissimo che tutte le metropoli del mondo vivono la stessa problematica, a volte in modi anche più accentuati. Ma qui l’accoglienza, l’inclusione hanno sempre fatto parte dello stile stesso della città. E oggi noi abbiamo bisogno di porre gesti concreti, scelte molto chiare. Per non rassegnarci a fare della sociologia.
In questi giorni c’è stato dibattito, sul fatto che i barboni addormentati sotto i portici sono imbarazzanti per il “decoro della città”. Si è detto anche che il “mestiere” di chiedere l’elemosina sia, tutto sommato, redditizio... Nessuno può giudicare l’elemosina e la fede o gli ideali umanitari che ci stanno dietro. Io vorrei evitare che, su temi così delicati, la discussione si riducesse alle polemiche tra interessi contrapposti: questa dell’inclusione non è una questione che riguarda solo i commercianti e l’immagine turistica, né la polizia municipale e i problemi dell’ordine pubblico. Mi sento di chiedere a tutti un colpo d’ala perché si considerino anzitutto le persone che sono nostri fratelli.
La Chiesa rimane comunque in prima linea. Come ha sempre fatto. Abbiamo due tipi di doveri: metterci direttamente a servizio delle persone in emergenza; ma anche “animare la carità”, sollecitare ad ogni livello istituzioni e opinioni pubblica affinché ciascuno faccia il proprio dovere. Come diocesi promuoviamo e partecipiamo alle riunioni dei vari coordinamenti delle istituzioni presieduti dal Prefetto, offrendo la disponibilità intera di quanto possiamo fare: ma voglio ribadire con estrema chiarezza che non tocca a noi la supplenza, in nessun modo; la Chiesa ha un preciso dovere di carità e di giustizia, e sovente si trova anche a poter intervenire più rapidamente grazie alla conoscenza capillare delle situazioni di bisogno e a una lunga esperienza di generosità. Ma non c’è nessuna “delega” per le attività assistenziali; c’è invece, e ci teniamo ad esserci, un percorso di confronto, di coordinamento con le istituzioni dello Stato e i servizi territoriali per attivare concrete ai bisogni delle persone, non raddoppiare interventi inutili, essere presenti sulle emergenze improvvise. In questa settimana le associazioni che lavorano in stretta collaborazione con la Caritas diocesana hanno confrontato i propri progetti e abbiamo messo a disposizione delle autorità civili le nostre risorse: tutto questo servirà nella realizzazione del piano di intervento straordinario del territorio torinese. Ma alla Chiesa rimane comunque ancora il compito di “uscire”, di andare a cercare i più poveri e fare tutto quanto necessario per loro e con loro. Non ce lo chiede questa o quella emergenza, ma la Divina Provvidenza!