Migranti. I 56mila esclusi dai centri di accoglienza
Il primo cittadino di Pesaro, Ricci: questi ragazzi sono nelle nostre piazze, il decreto ha prodotto solo insicurezza. Gualzetti (Caritas): tanti in fuga, fenomeno non governato. Piazza (Confcooperative Bergamo): i dormitori verranno presi d’assalto. Nella foto i migranti in attesa di essere portati in Questura a Milano (Fotogramma)
In un anno 56mila persone sono uscite dal sistema italiano dell’accoglienza. Sono diventate irregolari, 'clandestine'. Decine di migliaia di migranti non rientrano più nelle competenze dello Stato, che li ha tecnicamente allontanati dal circuito dell’inclusione.
Dal 30 giugno 2018 al 30 giugno 2019, infatti, secondo il ministero dell’Interno le persone accolte sono passate da 165.080 a 108.924. Un crollo del 34%, frutto di un ridimensionamento studiato a tavolino, sia in termini finanziari che umanitari.
Ma a che prezzo? E che fine hanno fatto i 56mila nuovi invisibili? Sono finiti nelle strade, nei dormitori pubblici, in soluzioni di fortuna. Ecco la vera 'invasione', studiata ad arte da chi governa. Arriva da terra e non è a favore di telecamera. Mette insieme chi è stato cancellato perché aveva la protezione umanitaria, chi si è visto bocciare la richiesta d’asilo dalle commissioni territoriali e chi è in attesa di un rimpatrio che potrebbe non arrivare mai. Nel frattempo, sul territorio sta succedendo di tutto (mentre sembra non accada nulla, secondo le cronache): i bandi prefettizi vanno deserti, il famigerato taglio a 18 euro della diaria giornaliera per migrante ha causato l’addio alle gare di molte realtà del Terzo settore fino a ieri in prima linea e, per evitare ulteriore confusione, sono le stesse Prefetture a chiedere al mondo cooperativo (con cui fino all’altro ieri collaboravano senza problemi) di rinegoziare gli accordi per venire incontro alle esigenze di gestione dei migranti.
Il territorio lasciato solo. «È finito tutto come previsto» racconta il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci. «Alla fine, questi ragazzi sono spariti dai riflettori e i Comuni se li sono ritrovati nelle piazze e nelle strade. Il decreto sicurezza ha prodotto soltanto maggiore insicurezza ». Le voci che si raccolgono sul territorio, dai primi cittadini alle cooperative, ripetono tutti lo stesso ritornello: i tagli sull’integrazione ci sono stati, ma il problema non è stato risolto. Anzi, a emergenza si è aggiunta altra emergenza, con l’aggravante che la responsabilità più grande è finita sull’ultimo anello della catena: quello degli enti locali e degli operatori sociali, chiamati a compiti sempre più gravosi. «Si fa di tutto per non governare questo fenomeno» sottolinea Luciano Gualzetti, direttore della Caritas ambrosiana, che si è fatta carico a sue spese del futuro di 50 migranti usciti dal circuito dell’accoglienza. Nella fotografia degli invisibili ci sono i cosiddetti 'diniegati', che non hanno potuto fare ricorso quando la loro domanda è stata bocciata, gli 'umanitari' che non possono più stare negli Sprar e i profughi in attesa di rimpatrio. «Sono gli stessi irregolari che ormai scoraggiano i loro connazionali a restare qui. Alla clandestinità nel nostro Paese, c’è chi preferisce l’alternativa di andare all’estero, perché l’Italia non è più considerata Paese accogliente» continua Gualzetti. Alcuni invisibili finiscono tra i senza dimora, altri soprattutto in questa stagione prendono il treno in direzione Centro-Sud per alimentare la manodopera sfruttata nei campi dai caporali. «Molti fanno richiesta di accesso a servizi d’emergenza, come i dormitori pubblici – racconta Omar Piazza, vicepresidente di Confcooperative Bergamo –. D’estate possono trovare soluzioni provvisorie, ma d’inverno il problema sarà drammatico, perché si rivolgeranno ai servizi di bassa soglia già sotto pressione da tempo».
Un tetto e un pasto. È qui che si disvela l’altro flop legato alle ultime normative: quello dei 18 euro a migrante. Doveva diventare l’emblema del giro di vite sulla sicurezza, garantendo semplicemente vitto, alloggio e (minima) assistenza legale ai profughi. In realtà, è diventato il simbolo di una doppia rinuncia: quella dello Stato a fare accoglienza dignitosa e quella delle cooperative che hanno deciso di disertare i bandi. «Il Terzo settore ha fatto i conti e in molti casi ha deciso che con 18 euro non si possono garantire i servizi necessari. Meglio tirarsi indietro» spiega Gualzetti, che poi aggiunge. «E pensare che con Roberto Maroni, la diaria giornaliera era di 45 euro a persona...». La verità è che è cambiato il clima complessivo, che le pressioni sulle Prefetture perché si giochi al massimo ribasso si sono fatte più insistenti, che i primi progetti a saltare sono stati i corsi di lingua italiana e i percorsi di mediazione culturale. A Monza e in Brianza, su 1.000 posti da gestire nell’accoglienza, ci sono state candidature solo per un modesto 10%. «Molti accordi si stanno rinegoziando, così come le modalità di affidamento» sottolinea Piazza. Il regime di proroga per ora è stato confermato, ma ai nuovi bandi molti non hanno partecipato, mentre ancora si cerca di capire cosa si nasconde dietro al passaggio oscuro dal sistema Sprar, che funzionava, all’attuale Siproimi. È un discorso, questo, che vale tanto più per i piccoli Comuni che, nell’ultimo decennio, hanno rappresentato modelli virtuosi soprattutto per la microaccoglienza. Prendiamo il caso dell’Alto Vicentino, dove una dozzina di paesi ha accolto oltre 70 migranti grazie a una rete diffusa di servizi che coinvolge diverse parrocchie. «Adesso si lavora in una totale incertezza, manca una prospettiva chiara sull’integrazione» racconta Franco Balzi, sindaco di Santorso, il Comune capofila del progetto. «Non possiamo lasciare l’ospitalità in mano ad albergatori improvvisati e senza scrupoli. L’operazione chirurgica che puntava a ridimensionare l’integrazione si è conclusa con l’azzeramento dei servizi e la crescita esponenziale della clandestinità. Ma alla fine, ai migranti, chi penserà davvero?».