Yemen. Allarme delle ong: «L'industria italiana di armi pronta a esportare di nuovo»
Prodotto in Italia, bombardato in Yemen. A pochi mesi dalla scadenza dello stop alla produzione italiana di bombe usate nel conflitto yemenita, la società civile rilancia la denuncia sulle responsabilità dell’industria bellica europea nelle stragi di civili da parte della coalizione saudita. A gennaio – proprio quando l’export bellico italiano potrebbe riprendere a rifornire i bombardieri sauditi – ong italiane, tedesche e yemenite discuteranno il ricorso contro la richiesta di archiviazione della loro documentata denuncia contro Rwm Italia e Uama, l’ufficio presso la Farnesina che autorizza le esportazioni belliche. E dalla maggioranza arrivano segnali: «Sto lavorando in commissione Esteri per chiedere al governo di rinnovare lo stop alla fabbrica sarda di bombe», annuncia la deputata del M5s, Yana Chiara Ehm.
La richiesta arriva da Rete italiana Pace e Disarmo, dal Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (ECCHR) con sede a Berlino, e dall’ong yemenita Mwatana, che ha documentato il coinvolgimento delle industrie europee di armamenti. «Governo italiano e produttori di armi – denunciano le ong – potrebbero essere considerati corresponsabili dei crimini di guerra commessi nello Yemen».
Le organizzazioni hanno pubblicato il documentario «Prodotto in Italia, bombardato in Yemen» sulle vittime civili dell’attacco aereo nel villaggio yemenita di Deir al–Hajari dell’8 ottobre 2016, con interviste ai familiari sopravvissuti. Le indagini di Mwatana su questo attacco, che ha ucciso sei membri di una famiglia – un uomo, la moglie incinta e quattro bambini – hanno dimostrato che le bombe utilizzate erano state fabbricate in Italia. Un anello di sospensione di una bomba MK80, trovato sul posto, ha una sigla che indica lo stabilimento di Domusnovas.
Nell’aprile 2018, le tre ong hanno presentato a Roma una denuncia penale alla Procura della Repubblica sulla presunta responsabilità penale di Uama e di Rwm Italia SpA. Un anno e mezzo dopo, il pm ha chiesto l’archiviazione, «invece di procedere a una valutazione completa dei fatti», lamenta l’avvocata Francesca Cancellaro dello studio Gamberini, che invece ipotizza il reato di «abuso d’ufficio» per violazioni della legge 185/90 sulle esportazioni di armamenti e del Trattato internazionale sul commercio di armi. Mwatana, Rete Pace e Disarmo e Ecchr hanno presentato ricorso. Causa pandemia, l’udienza di riesame di aprile è stata fatta slittare a gennaio 2021.
«Tra il 2015 e il 2020 abbiamo contato almeno 528 attacchi aerei – afferma l’avvocata Bonyan Jamal dell’ong Mwatana – che hanno ucciso 2.217 persone, di cui 936 donne e 364 bambini, oltre a 2.278 feriti. Attacchi contro villaggi, quartieri residenziali, scuole. Metà delle strutture sanitarie sono danneggiate e chiuse anche a causa di 220 attacchi, di cui 22 bombardamenti che hanno fatto 96 vittime tra gli operatori sanitari».
L’11 dicembre 2019, le tre ong – insieme ad Amnesty International, Campaign against the arms trade, Centro Delàs di studi per la Pace – hanno presentato una comunicazione alla Corte Penale Internazionale dell’Aja chiedendo un’indagine sulla responsabilità degli attori aziendali e governativi di Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito. Canelle Lavite di Ecchr ricorda «il precedente degli imprenditori condannati dal tribunale di Norimberga perché avevano fornito armi ai regimi».
«Il flusso di armi italiane alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita – afferma Francesco Vignarca di Rete italiana Pace e Disarmo – va fermato. Chiediamo a Governo e Parlamento di prendere estendere la sospensione delle spedizioni di missili e di bombe aeree, concordata nel luglio 2019 e che scadrà all’inizio del 2021».
La RWM non si ferma: 200 bombe vendute alla Turchia. Le associazioni sarde: riconvertire rilanciando il settore caseario
Bombe da aereo per oltre 15 milioni di euro dallo stabilimento sardo della Rwm direttamente alla Turchia. C'è un pezzo di economia che sembra non risentire dei contraccolpi della pandemia. È l'industria delle armi. Durante il lockdown di marzo la fabbrica di Cameri (Novara) aveva proseguito la costruzione dei cacciabombardioeri F–35. E a Domusnovas (Carbonia–Iglesias), gli stabilimenti Rwm hanno continuato a produrre ordigni esplosivi. Nemmeno la sospensione di 18 mesi – decisa a luglio 2019 dal governo per bombe e missili destinate alla coalizione saudita per la guerra in Yemen – ha fermato la fabbrica. L'ordine per la Turchia è di 200 bombe Blu109 da 2.000 libbre, oltre 900 chili l'una, prodotte e vendute al governo di Istanbul su autorizzazione 2019 dell'Uama, presso la Farnesina.
Le 200 bombe da 15 milioni di euro sono solo una parte dell'export italiano di armi verso la Turchia: dai dati Istat sul commercio estero si evince che nel 2019 il governo ha autorizzato produzioni di armi per 63,7 milioni di euro e sono stati effettivamente già consegnati armamenti per 338,2 milioni. Solo nei primi sei mesi del 2020 sono state consegnate armi per 59,99 milioni. Un record storico dal 1991.
L'interventismo di Erdogan e la sfida alla Grecia sui giacimenti marini di gas ha spinto l'Europarlamento, il 16 settembre, a chiedere ai paesi membri lo stop dell'export bellico alla Turchia. Un anno fa, il 16 ottobre, il ministro Luigi Di Maio aveva annunciato un atto per bloccare «le vendite future di armi alla Turchia». Ma le armi continuano a partire verso il Bosforo.
La sospensione alla produzione di bombe per i sauditi scade a gennaio. La Rwm ha contratto la produzione, non rinnovando i contratti a termine, ma non si è fermata. L'iglesiente è depresso dal punto di vista occupazionale. E in vista della scadenza crescono le pressioni sul territorio. Esponenti locali del Partito sardo d'Azione, quello del governatore sardo Christian Solinas, hanno chiesto al governo di far ripartire la produzione. E nei giorni scorsi hanno preso di petto le organizzazioni della società civile che chiedono una ricoversione a produzioni civili: «Non parlate della Rwm, avete causato un grave danno a Domusnovas». L'organizzazione eco–pacifista Sardegna Pulita ha replicato chiedendo a Solinas di sconfessare gli esponenti locali del PSd'Az.
Il ricatto occupazionale, come a Taranto, esaspera gli animi. L'anno scorso il portavoce di Sardegna Pulita, Angelo Cremone, ha denunciato una lettera minatoria: «Da un amico. Hanno preparato una bomba per lei. Si fermi». Minacce che lo bersagliano da anni: tre anni fa alle manifestazioni contro la decarbonizzazione delle centrali Enel spuntò un manichino impiccato con la foto di Cremone. E vernice rossa gli ha imbrattato auto e casa.
Sardegna Pulita chiede una riconversione che valorizzi la vocazione agropastorale dell'area: «La fabbrica diventi un centro caseario regionale. Con il Recovery fund si crei un'industria lattiera sperimentale, di concerto con la Facoltà di agraria di Sassari, che valorizzi il latte dei 4 milioni di ovini della regione, in gran parte usato per il pecorino romano e pagato a prezzi irrisori. Diversificare la produzione renderebbe remunerativo l'allevamento e creerebbe occupazione». L'interrogativo propagandistico di Mussolini – «Burro o cannoni» – è ancora attuale?