Coronavirus. Guariti o dimessi? Ecco i segni che il Covid lascia (almeno per un po')
Con buona pace di chi, tra gli esperti, guarda ancora con timore alla ormai esile curva dei nuovi contagi da coronavirus in Italia (anche ieri i dati hanno evidenziato una sostanziale frenata dell’epidemia, con un ulteriore crollo del numero di malati), la nuova sfida della medicina ora sono i “guariti”. O meglio, quelli che guariti vengono definiti per comodità dal Bollettino quotidiano della Protezione civile, ma che in buona sostanza corrispondono ai “dimessi”: pazienti che si sono ammalati di Covid-19, sono transitati in qualche modo attraverso le maglie del Sistema sanitario (chi ricoverato, chi seguito e monitorato a distanza) e che hanno superato la fase acuta della malattia. Un esercito di 144.658 persone, sulle cui condizioni di salute non esistono ancora dati certi: stanno bene? Si sono completamente ripresi? Hanno conseguenze del coronavirus e, se sì, quali? Rispondere alle domande, per la scienza, è difficile almeno quanto comprendere come funziona il Sars-Cov-2: il virus è nato da poco più di 7 mesi, i più “anziani” tra i guariti se va bene sono usciti dalla malattia a gennaio, nel nostro Paese a metà marzo.
Scritto nei polmoni
Ieri è stata la Società italiana di pneumologia a tracciare un primo bilancio, decisamente negativo: in base ai primi follow-up sui pazienti dimessi, incrociati coi dati empirici raccolti dai medici cinesi e confrontati con quelli relativi all’epidemia di Sars del 2003, l’infezione potrebbe infatti lasciare strascichi a lungo termine sulla funzionalità respiratoria e talvolta comprometterla in modo irreversibile, soprattutto nei pazienti usciti dalla terapia intensiva. Insomma, i polmoni di chi si è ammalato rimarrebbero segnati a lungo (dai 6 ai 12 mesi), o addirittura per sempre (nel 30% dei casi), al punto da far parlare gli esperti di una possibile «nuova emergenza sanitaria». L’uso del condizionale, però, è d’obbligo: «Non abbiamo al momento dati certi sulle conseguenze a lungo termine da polmonite da Covid-19. È trascorso ancora troppo poco tempo dall’inizio dell’epidemia a Wuhan, dove tutto è cominciato – ammette Luca Richeldi, membro del Comitato tecnico e scientifico per l’emergenza coronavirus, presidente della Sip e direttore del Dipartimento di Pneumologia del Policlinico Gemelli di Roma –. Tuttavia le prime osservazioni confermano il sospetto che come la Sars anche il Covid-19 possa comportare danni polmonari che non scompaiono alla risoluzione della polmonite».
L’identikit del guarito
Chi invece ha già cominciato a produrre puntuale letteratura scientifica sui pazienti post-Covid sono gli esperti in medicina riabilitativa, che ormai da settimane incrociano dati e report a livello internazionale tentando di tracciare linee comuni di intervento nelle terapie. Del board europeo fa parte Maria Gabriella Ceravolo, ordinario di Medicina fisica e riabilitativa all’Università Politecnica della Marche e coordinatrice di un progetto innovativo nato in Italia a metà marzo proprio per gestire la convalescenza dei pazienti guariti dal Covid: «Insieme agli Ospedali Riuniti di Ancona – spiega – abbiamo creato una piattaforma di rieducazione terapeutica a distanza, accessibile a tutti e gratuita, in cui attraverso filmati mostriamo ai convalescenti il percorso da seguire nelle settimane successive al ricovero». Tra i 30mila contatti accumulati in due mesi dal portale (da ogni parte d’Italia e anche dall’estero, visto che la piattaforma è accessibile anche in lingua inglese) emerge con chiarezza l’identikit del “guarito”, confermato dagli studi pubblicati sulle riviste internazionali: «Fino al 50% di chi è stato ospedalizzato – continua Ceravolo – presenta quella che in termini sanitari si chiama “sindrome da decondizionamento”: difficoltà motoria, senso di spossatezza e affaticamento quasi invalidanti ». Si tratta di uno stato transitorio, in due o tre settimane se correttamente seguiti, anche a distanza, i pazienti si riprendono. L’impatto, ovviamente è più consistente nella fascia di popolazione più anziana «ma anche i pazienti tra i 40 e i 50 anni presentano conseguenza pesanti dal punto di vista di fisico».
L’abisso della depressione
Altri scogli della convalescenza, quelli neurologici, soprattutto per chi è stato in rianimazione: «I numeri ci dicono che nel 30% dei casi si presentano encefalopatie, con stato di confusione, disorientamento, fatica a concentrarsi. Aumenta anche il rischio di ictus». E poi l’abisso dei problemi psicologici, enormi, soprattutto nelle persone che presentavano patologie pregresse come la demenza: «La sindrome depressiva è una cifra comune del paziente post-Covid – continua Ceravolo –, unita agli altri elementi di cui abbiamo parlato crea indubbiamente un nuovo scenario dentro cui dovremo in fretta imparare a muoverci: superata la fase acuta della malattia e lo scoglio prioritario del “salvare vite”, il nostro Sistema sanitario cioè dovrà iniziare a guardare al medio e lungo periodo». Non è un caso se al Policlinico Gemelli di Roma è stato attivato un Day hospital post-Covid e a Pavia un ambulatorio dedicato ai pazienti dimessi dal San Matteo. E ancora, resta un’altra incognita: che cosa è successo a chi è rimasto a casa. Solo col Covid, perché gli ospedali erano pieni, e - oggi - solo coi suoi postumi.