Intervista. Letta: «L’Europa è a un bivio, la vera sfida è finanziare il Green deal»
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Dopo un grand tour di 9 mesi, con 400 incontri e 65 città europee visitate, Enrico Letta ha maturato una convinzione-chiave: «Il cuore della questione europea oggi è come si finanzia la transizione ecologica. Non c’è tema più importante. Non c’è tema che non derivi da questo». E il rapporto che l’ex premier ha messo nelle mani di Ursula Von der Leyen, e che la presidente della Commissione Ue ha tradotto nel programma di legislatura, ha toni quasi ultimativi: «Senza il necessario accompagnamento – scandisce Letta – tutto finirà in un grande boomerang sociale e politico».
C’è a Bruxelles la consapevolezza di essere a un bivio?
Nelle indicazioni programmatiche di Ursula von der Leyen, e nelle mission letter ai commissari, la consapevolezza è palpabile. Ma gli ostacoli sono molti e i tempi stringono. C’è un fossato profondo tra Nord e Sud Europa che sta bloccando tutto. Il tema non è se accelerare o frenare la transizione di un anno o due o cinque. Il tema è trovare una soluzione sulle risorse.
Quale soluzione ha indicato lei nel rapporto consegnato a Von der Leyen?
La novità della mia proposta, che è stata accolta, è nella costituzione di un Fondo pubblico-privato, che attiri gli investimenti. Stiamo parlando di cifre imponenti da spalmare in almeno 10 anni. Mario Draghi ha indicato un impegno da 800 miliardi l’anno, integrando altri capitoli. La Commissione ha parlato di 620 miliardi. È evidente che c’è bisogno anche del capitale privato.
Un modo anche per superare le storiche resistenze dei Paesi del Nord alla condivisione del debito?
L’Italia, ma ormai anche la Francia, la Spagna, hanno un debito alto che i Paesi del Nord non vogliono unire. È anche comprensibile per certi aspetti il loro timore di essere “contaminati”. Ma questo stallo non serve a nessuno. Le conseguenze di una transizione ecologica non compiuta, o compiuta senza un accompagnamento sociale forte, sarebbero drammatiche per tutti i Paesi europei da Nord a Sud, da Ovest a Est.
Cosa intende per “conseguenze drammatiche”?
Le indico tre categorie molto diverse ma che si intersecano in modo profondo: proprietari di case, agricoltori, lavoratori e imprenditori dell’automotive. Parliamo di milioni e milioni di cittadini europei. Come li aiutiamo ad affrontare la transizione? Cosa succede se si mettono di traverso? Cosa accadrà, anche alle nostre democrazie e alla politica, se queste persone non saranno messe in condizione di affrontare un cambio di paradigma, un cambio d’epoca? I governi devono raggiungere un accordo nel più breve tempo possibile. Nel discorso di luglio Von der Leyen ha ripreso la mia proposta, ma non c’è tempo per traccheggiare. Tra due mesi potrebbe essere tardi.
Perché tra due mesi?
Se negli Usa dovesse vincere Trump, cosa che io non mi auguro, avremmo un cambio di scenario traumatico. Il Trump 2 non sarebbe come il Trump 1. L’Europa sarebbe sfidata in modo diretto.
Gli Usa da una parte, la Cina dall’altra, l’Ue debole in mezzo. Il solito scenario…
Ma non solo e non sempre per colpa dell’Europa. La riottosità a integrarsi su difesa, sicurezza, migrazioni e su tanti aspetti cruciali non dipende esclusivamente dalle lentezze di Bruxelles, ma soprattutto dalla scarsa lungimiranza dei Paesi membri.
A suo parere non si è persa ormai tra i governi nazionali la consapevolezza che senza un impegno serio sulla transizione ecologica ci si rassegna alla “terza guerra mondiale a pezzetti”, come la definisce papa Francesco?
Comprendo questo scetticismo, ma non lo condivido. Non condivido cioè l’idea che l’Europa abbia irrimediabilmente perso la sua “presa” sui popoli e non sappia più indicare una strada credibile. Il Green deal rischia sì di fallire, con conseguenze nefaste sulla nostra competitività, ma non per i motivi di cui discutiamo nei dibattiti nazionali. Il tema, lo ripeterò sino alla noia, sono le risorse e i governi hanno la responsabilità storica di trovare un accordo. E il mondo ha bisogno di un’Europa capace di costruire una solida economia più rispettosa dell’Ambiente e dell’uomo. Con tutti i difetti evidenziati un giorno sì e l’altro pure, io credo che l’Unione abbia in sé i valori e le capacità per costruire un modello nuovo che rifletta anche i principi della Dottrina sociale e il magistero di papa Francesco. Da questo punto di vista c’è anche una precisa responsabilità dei credenti.
Non si è già sprecata, con il Pnrr, una mezza occasione?
Il Pnrr non aveva lo scopo principale di spingere la transizione. Il Piano del 2020 ha scale nazionali, una scadenza già fissata al 2026 e risorse non comparabili a quelle che servono oggi. E non finanzia grandi progetti europei di cui avremmo bisogno con il pane. Faccio un esempio: non esiste ancora un’alta velocità in grado di collegare in modo diretto le capitali europee, mentre esiste un collegamento diretto Pechino-Shangai. E penso questo dica tanto.
Presidente, con Draghi siete stati gli “ispiratori” del programma di Von der Leyen. Due italiani. Ma dove sono i grandi europeisti degli altri Paesi?
Anche qui porto un’altra visione delle cose. Nel 2019 le elezioni europee erano segnate dalla Brexit e dalle tante “exit” con cui forze politiche nazionali conducevano la loro campagna elettorale. Cinque anni dopo, il suffisso “exit” è quasi sparito e la maggioranza per Von der Leyen è più ampia. Gli europeisti ci sono, non sono scomparsi, anzi.
E si affidano a una politica esperta, Von der Leyen, che però al momento non sembra aver risvegliato il “sogno” europeo.
Guardi oggi il sogno è dato dalla necessità. La necessità è la drammatica perdita di competitività e ricchezza. Può sembrare poco romantico, ma in questo momento è la necessità a ricondurci verso il sogno. Penso che il rapporto mio e quello di Draghi abbiano aperto uno squarcio per tornare a connettere pragmatismo e idealità.
Una riconnessione che ha bisogno anche di “riforme istituzionali”?
Le mie proposte sono a Trattati vigenti, perché mettervi mano ora creerebbe ulteriore caos. Ma quando si arriverà all’allargamento, rivedere i Trattati sarà necessario. Guardi io sono un inclusivo, ma l’inclusione si coniuga con la responsabilità. Non possiamo immaginare che ulteriori 7-8 Paesi abbiano il potere di veto che ha Orbán. O che altri, come Orbán, nel proprio semestre di presidenza facciano mosse sbagliate che indeboliscono l’Europa nel mondo. Inclusivi sì, autolesionisti no. Non più.