Consulta, Parlamento, Eutanasia. Grave la spinta a rendere violabile la vita altrui
Caro direttore, l’approssimarsi della data del 24 settembre, nella quale la Corte costituzionale dovrebbe pronunciarsi sul suicidio assistito, mi spinge a chiederle l’ospitalità per esprimere una posizione critica in merito all’ordinanza della Corte. So bene che le sentenze e in particolare quelle costituzionali vanno rispettate, ma penso che questo non impedisca qualche critica di merito, anche in difesa del ruolo del Parlamento. La Corte, nella sua ordinanza di un anno fa, su un argomento così delicato e complesso sembra non aver tenuto in nessun conto lo sforzo di mediazione che sta alla base della legge 219 del 2017 che essa stessa chiama in causa. Di questa legge sono stata la relatrice e, ricordo, è stata approvata con una larga e trasversale maggioranza. Abbiamo cercato infatti il massimo comune denominatore. Vero è che la mediazione e la ricerca di punti di incontro tra posizioni lontane non sembra più un valore nella divisa società odierna, ma personalmente ritengo ancora che su questioni etiche complesse comprendersi a vicenda e cercare punti di incontro sia un bene, sia il compito di un Parlamento sottratto al solo ruolo di campo di battaglia e debba essere valutato anche nella fase del giudizio costituzionale. La Corte sembra inoltre trascurare il fatto che il Parlamento si è pronunciato sul fine vita con la legge 219/2017 avendo piena consapevolezza della vicenda di Dj Fabo, vicenda che ha sicuramente accelerato l’iter della legge. Una storia tragica e terribile, non l’unica incontrata nel nostro lavoro, che inevitabilmente chiede risposte. È ciò che si è tentato di fare con un paziente lavoro di confronto, studio e ascolto delle società scientifiche. Non è vero quanto sui media si sta dicendo, cioè che manca una legge sul 'fine vita', perché la 219 affronta all’articolo 2 questo tema. Si dica invece onestamente che manca una legge sull’eutanasia e questo perché il precedente Parlamento ha bocciato con 260 voti contro e solo 84 a favore l’emendamento diretto a introdurla. Ovviamente questo non esclude la possibilità che in questa legislatura o nelle successive un altro Parlamento assuma una diversa posizione, ma non si può ignorare quanto è avvenuto. Era tuttavia facile prevedere che la questione sarebbe finita davanti alla Consulta. Mai avrei immaginato, però, che ci sarebbe arrivata attraverso la fattispecie penale dell’aiuto al suicidio applicata a chi ha svolto la funzione di 'autista' – funzione che poteva facilmente essere svolta da un inconsapevole autista retribuito –, e che da lì si sarebbe partiti per ragionare dell’assistenza sanitaria al suicidio, cioè della prescrizione e della fornitura del farmaco letale, senza peraltro che il tribunale di Milano abbia ritenuto di coinvolgere chi ha svolto un ruolo assai più determinante. Mi stupisce inoltre che nell’ordinanza della Corte i concetti di limitazione delle cure per evitare l’accanimento, il rifiuto delle cure stesse, il suicidio assistito e l’eutanasia (qual è la previsione, nell’ordinanza, della somministrazione diretta del farmaco) non siano distinti, eppure sia la medicina sia la giurisprudenza sia gli ordinamenti di altri Paesi riconoscono che si tratta di fattispecie diverse. In questo modo la Corte imbocca una strada completamente nuova, i cui esiti non sono prevedibili, allontanandosi dalla giurisprudenza della Cassazione (pur richiamando formalmente la sentenza Englaro) di cui il lavoro parlamentare aveva tenuto conto. Ciò che alla Corte appare irragionevole – la non equiparazione del rifiuto delle cure al suicidio medicalmente assistito – è apparso ragionevole al legislatore perché in nessun modo l’assistenza sanitaria al suicidio ci è apparsa riconducibile all’articolo 32 della Costituzione e perché sia nel caso dell’assistenza al suicidio sia nell’eutanasia viene coinvolta un’altra persona. Si esce dalla sfera personale del singolo e si chiede a un altro di venir meno a un principio fondamentale che non appartiene solo ai credenti ma è alla base della convivenza civile, cioè quello dell’inviolabilità della vita altrui. E si chiede al medico una modifica profonda del proprio ruolo e della propria missione, con effetti potenzialmente devastanti sulla relazione di cura e un aumento ulteriore della sfiducia verso il sistema sanitario a cui già ora si imputa di decidere in base ai costi e non ai bisogni. E questo è più complesso che il riconoscere l’obiezione di coscienza. Così l’invito ad ampliare l’offerta di cure palliative, cosa sicuramente necessaria, non risponde per nulla proprio al caso in discussione. Semmai il problema è l’insufficienza di un sistema di sostegno alle persone non autosufficienti e alle loro famiglie lasciate troppo spesso da sole. I diritti individuali sono alla base della democrazia moderna, ma questi diritti non esauriscano i valori costituzionalmente fondamentali (si pensi ad esempio al valore della solidarietà) e non possono essere l’unica chiave di lettura della Costituzione. Ma questo è un argomento assai vasto. Mi limito ad augurarmi quindi che la strada del confronto nella sede parlamentare torni a prevalere.
già deputata e relatrice della legge 219/ 2017