Turchia. Affonda gommone: 9 morti, di cui 7 bambini
Foto d'archivio
Nella notte tra mercoledì 8 e giovedì 9 agosto un gommone è naufragato al largo delle coste turche nell’Egeo: sopra c’erano 13 persone. Nove hanno perso la vita. Tra le vittime ci sono sette bambini e due donne. Non si conosce la loro identità, ma solo la loro nazionalità: irachena.
Si muore nel silenzio ogni giorno. In Italia, in Grecia. Sulla terraferma, nei campi profughi, in mare, che sia sulla pericolosa rotta del Mediterraneo centrale che sia su quella più breve che separa la Turchia dalla Grecia, sempre alla ricerca di una feritoia per entrare nella fortezza Europa. Nei primi sei mesi del 2018 ogni sedici persone partite, ne è morta una, affogata. Nelle ultime settimane, la percentuale è salita ancora. Uno a sette, un genocidio sotto i nostri occhi.
Secondo quanto comunicato da una nota diffusa dal ministero dell’Interno turco, l’allarme del naufragio del gommone al largo delle coste turche di Kusadasi è stato lanciato intorno alle 3.30 del mattino di giovedì 8 agosto: sono state inviate sul posto due navi della Guardia costiera e una squadra di immersione. L’inizio dei soccorsi è iniziato poco prima delle 4 del mattino, con l’aiuto di un elicottero e un aereo. A bordo dell’imbarcazione che si è rovesciata sembra che non ci fossero i giubbotti di salvataggio: per questo motivo nove persone sono morte annegate in attesa dei soccorsi. A pagare con la vita sono stati soprattutto i bambini, sette delle vittime erano minori stando a quanto confermato dall'amministratore del distretto di Kusadasi (nella provincia di Aydin), Muammer Aksoy. Due le donne, sempre di nazionalità irachena.
Dalle poche informazioni provenienti dalle agenzie di stampa turche, su tutte Anadolu, si sa che il gommone era diretto verso le isole greche. E sempre il rappresentante del distretto di Kusadasi ha dichiarato che tutti i corpi sono stati recuperati e che non ci sarebbero stati altri dispersi in mare. Le 9 vittime vanno ad aggiungersi alle 54 morte annegate al largo delle coste turche nei primi 7 mesi dell’anno, e descritte nelle statistiche ufficiali della Guardia costiera come “migranti irregolari”.
Nonostante i riflettori internazionali si siano progressivamente spostati dalla rotta balcanica a quella del Mediterraneo centrale, l’esodo di migliaia di persone in viaggio dalla Turchia, attraverso la Grecia, verso il nord Europa non si è mai fermato, così come non sono cessate le proteste fra i richiedenti asilo, bloccati sulle isole greche per le condizioni indegne dei centri di accoglienza e l’impossibilità di spostarsi liberamente sulla terraferma. Lo scorso 17 aprile la Corte suprema di Atene aveva annullato la decisione del governo greco di imporre limitazioni geografiche ai richiedenti asilo arrivati sulle isole, ma tuttora la realtà per i profughi non è migliorata: a Lesbo, ad esempio, ci sono almeno 10mila persone bloccate, di cui, stando agli ultimi dati del ministero dell’Interno greco, 7.400 si trovano ancora nei campi ufficiali, che in verità potrebbero ospitarne fino a 3.100.
Nonostante la chiusura delle frontiere dei Paesi balcanici e la firma dell’accordo Ue-Turchia nel marzo 2016 per lasciare mano libera al presidente turco Erdogan sulla gestione dei confini dell’Europa, quel che appare evidente è che la rotta balcanica ha continuato a essere una grandissima fonte di guadagno per i trafficanti, grazie anche alla prassi illegale dei continui respingimenti. I numeri dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati parlano nel 2017 di 172mila ingressi attraverso l’Egeo, a cui si aggiungono quelle decine di migliaia persone bloccate tra Serbia e Bosnia, oltre nuovi arrivi del 2018 (nei mesi estivi, in media 100 persone al giorno entrano nella penisola balcanica dalla Grecia, ndr).
Dall’Acnur Serbia è arrivata, ieri, la denuncia, non nuova, di altri respingimenti violenti e illegittimi soprattutto per persone di nazionalità afghana, pachistana e irachena: soltanto nelle ultime due settimane 197 persone sono state respinte illegalmente dalla Croazia, 54 dalla Romania e 63 dall’Ungheria. Infine, restano sotto accusa da parte di molti analisti internazionali anche quei 6 miliardi di euro versati nelle casse di Ankara dall'Europa che voleva esternalizzare le sue frontiere, a discapito anche dei diritti umani e delle condizioni di vita di migliaia di persone. Lo stesso meccanismo di ricollocamento in Turchia dei siriani rimasti bloccati sulle isole greche ha dimostrato di non funzionare: nonostante fossero stati forniti da Bruxelles 60 milioni di euro alla Turchia per questo specifico obiettivo, meno di 1.200 profughi sono partiti da Atene per Istanbul.