Coronavirus. Gli ultimi dimenticati di Roma. «Così bloccano l'accoglienza»
Sullo sfondo persone accampate davanti all'ostello Caritas
Nell’ostello della Caritas di Roma ci sono almeno settanta posti liberi per senza dimora. Eppure proprio di fronte sono accampati a decine, con tendine e ripari di fortuna. Un accampamento di fragili e scartati, vittime di lentezze e inefficienze. Il traffico scorre a fianco di questi disperati, la città li ignora, soprattutto quella istituzionale. «Mentre, giustamente, ci si preoccupa dei turisti che tornano dall’estero, si fanno tamponi a tutti, una spesa straordinaria ma cosa buona, non si fa lo stesso nei confronti degli ultimi, a Roma come in altre città». È la durissima accusa di don Benoni Ambarus, direttore della Caritas diocesana di Roma. «Sono mesi che chiediamo che si creino prassi efficienti per riaprire l’accoglienza agli ultimi. Noi siamo disposti a fare di più. Abbiamo messo a disposizione luoghi per l’isolamento ma chiediamo che siano fatti i tamponi, per poi poterli accogliere nelle nostre strutture. Ma per ora non abbiamo avuto risposte. Così i posti restano vuoti e aumentano le persone accampate per strada».
Nessuna legge, anche le norme per l’emergenza Covid-19, vieta di accogliere i senza dimora. Ma, ci spiega Salvatore Geraci, responsabile del settore sanitario della Caritas romana e uno dei maggiori esperti di medicina delle migrazioni, «abbiamo fatto una scelta di sicurezza e responsabilità, per evitare che possano essere contagiati i soggetti fragili che vengono ospitati nei nostri centri, con patologie croniche e dipendenze. Cosa succederebbe se entrasse una persona contagiata? Sarebbe una strage, come già avvenuto in tante Rsa». Eppure basterebbe poco, molto poco, per evitarlo, accogliendo in sicurezza chi oggi è accampato per strada, ed evitando anche assurde accuse. «Per l’aumento delle persone per strada arrivano proteste dei cittadini, come se fosse colpa nostra» dice ancora don Ben. Invece, ricorda il dottor Geraci, «noi già a marzo abbiamo chiesto a Comune e Regione di predisporre una struttura dove tenere in isolamento per 14 giorni le persone prima di accoglierle. Ma, lo ripeto, bisogna anche fare i tamponi. Il Comune dice che basta il test sierologico, ma sbaglia. Alcune Asl hanno dato la disponibilità, altre ancora no. Ma tutto va avanti troppo lentamente». Insomma, insiste, «il percorso poteva essere chiuso tre mesi fa e invece siamo ancora indietro. Noi insistiamo sulla necessità di una collaborazione tra pubblico e privato sociale. Ma vediamo che il Comune non parla con la Regione, e ogni Asl si muove in modo diverso».
L’unico fatto positivo, aggiunge, «è che paradossalmente il sistema di accoglienza ha tenuto ». Ma, avverte don Ben, «ora serve uno scatto di dignità e di lucidità sociale. Altrimenti a settembre ci troveremo con una bomba sociale. Serve uno sforzo di decenza. Le istituzioni devono dire se gli importa di questi disperati. Sono senza voce. Invece esistono. Ma li vediamo solo noi? Li si vuole far morire?». Parole drammatiche ma le immagini degli accampamenti parlano da sole. Tendine, cartoni, teli di plastica. C’è chi addirittura si è sistemato dentro vecchissimi cantieri, mai finiti, per il consolidamento di mura pericolanti. Un ulteriore rischio. Le porte della Caritas e di tante altre associazioni sono aperte ma servono «direttive precise della Regione alle Asl per un’accoglienza sicura e efficiente. Nessuno ci dice che non va fatto, ma tutto va troppo lentamente. Per i senza dimora si usa la velocità più bassa». Eppure, ci spiega ancora Geraci, «si otterrebbe un altro risultato. Ospitarli in una struttura diventa anche occasione per responsabilizzarli. Se spieghi, se motivi, anche le persone più semplici si responsabilizzano. E in un’epidemia è fondamentale ». E invece sono lì, abbandonate per strada. A un passo dalla sicurezza, bloccati da colpevoli ritardi.