40 anni dopo la Basaglia. Gli ex manicomi d'Italia, monumenti alla memoria

Uno scorcio dell'edificio che ospitava l'ex manicomio di Aversa (Caserta) in una foto del 2012 (Mauro Pagnano)
«Quando sfoglio le cartelle cliniche nell’archivio, le penso come quei racconti che i nativi del Nord America dipingevano sulle pelli di bisonte inverno dopo inverno, come annali pittografici della loro storia, testi che non ci raccontano un passato, ma ci inducono a confrontarci nel presente con una varietà notevole di memorie di cui tutti siamo fatti». Sanno di poesia, le parole di Pompeo Martelli, direttore del Museo Laboratorio della Mente di Roma, ex manicomio di Santa Maria della Pietà, ma sono di una concretezza tangibile. Siamo a Trieste in un luogo unico al mondo, l’ex manicomio di San Giovanni, oggi Parco Culturale, da cui 40 anni fa lo psichiatra Franco Basaglia rivoluzionò la psichiatria mondiale. Tema del convegno 'Che ne è dei 70 manicomi italiani?', ancora più impressionanti oggi che in gran parte rovinano fatiscenti, privati anche dei lamenti di chi per decenni vi era stato recluso.
Sempre difficile scindere follia e poesia, in effetti, forse perché la seconda trae linfa dal dolore di cui la prima è densa. Così Giancarlo Carena spiega lo spirito del convegno che ha organizzato: «Trieste è città di frontiera, sempre aperta alle contaminazioni – dice il presidente della cooperativa 'Agricola Monte San Pantaleone' –, e qui parleremo dei 70 manicomi, 70 giardini reali o invece possibili, con voi che siete i giardinieri del mondo».
Liberati dalle catene i matti e riportati dalla legge Basaglia (del 1978) alla dignità di esseri umani, i manicomi italiani hanno preso direzioni diverse, alcuni ancora pochi mesi fa abitati in parte dai pazienti, altri invece subito smantellati ma rimasti in balìa del disfacimento, altri ancora riutilizzati a diversi fini, nei casi virtuosi come luoghi che proseguono il processo di trasformazione sociale, altre volte 'traditi' e riconvertiti per battere cassa. Se Trieste resta un fiore all’occhiello al punto da aver attratto in un anno le delegazioni di 38 Paesi, come ha ricordato Roberto Mezzina, il direttore del Dipartimento di Salute mentale che ha portato a termine l’integrazione nel territorio di tutti i pazienti, anche altre città vincono in parte la sfida, «da Milano con il 'Paolo Pini', caso interessante che oggi ospita l’università, la Asl, alcune cooperative sociali per i disabili e attività di arte curativa – dice Angela D’Agostino, docente di Progettazione Architettonica all’università Federico II di Napoli –, a San Servolo di Venezia con il suo centro studi e il museo del manicomio». Si deve alla tesi di laurea di Maria Pia Amore la mappatura delle 70 strutture italiane, dallo stato di abbandono di Napoli o Vercelli o Pesaro, all’estremo opposto (e molto contestato) di San Clemente a Venezia, oggi hotel di lusso per isolamenti dorati.
Sono luoghi che vanno difesi, si diceva ieri con passione, non come mausolei di un tempo andato, ma come laboratori del presente: «La memoria impegna l’avvenire, non riguarda il passato», ha spiegato Mezzina. Mentre l’architetto Domenico Luciani ha delineato quel passo in più che dalla comunità terapeutica di Basaglia ha portato alla comunità responsabile, «che siamo tutti noi che viviamo e lavoriamo qui: questi luoghi sono un bene comune». Giuseppina Scavuzzo, docente di Architettura all’ateneo triestino, si occupa della rigenerazione dell’ex manicomio di Gorizia, per il quale è istituito un tavolo tecnico tra Regione, Asl, Comune e università: «Tutto partì da lì il 16 novembre 1971 con l’arrivo del giovane direttore Basaglia al suo primo incarico. Dunque non si tratta di ristrutturare dei muri, ma in modo quasi rabdomantico di riattingere al pensiero di quel luogo, al genius loci che accese la rivoluzione». L’ex ospedale psichiatrico di Gorizia nacque sotto l’Austria come realtà d’avanguardia, rovinò con la prima Guerra mondiale, fu restaurato durante il Fascismo, «poi uno dei suoi lati combaciò con il confine jugoslavo e divenne uno dei Muri della Cortina di Ferro, divise in due il mondo. Infine si dissolse e parte del parco fu venduto per costruire abitazioni». Come accade a Genova, dove i 750mila metri quadri di verde di Prato Zanino sono stati venduti nel 2008 per coprire i buchi nel bilancio pubblico: «Nessuno ci può più entrare – denuncia Amedeo Gagliardi – dentro ci sono affreschi vincolati dalle Belle Arti e un presepe di 400 metri quadri che rappresenta la vita del manicomio, fatto dai pazienti con un infermiere». Insomma, anche l’architettura ha in parte mancato la sua funzione terapeutica, conclude Giuseppina Scavuzzo, e cita Basaglia: «Se il manicomio è una farsa, i capocomici sono lo psichiatra e l’architetto».