Analisi. Caso Regeni senza verità. Quelle garanzie di legge usate come muro
“A piazzale Clodio per tornare a reclamare verità e e giustizia per Giulio Regeni”, scrive su Twitter la Fnsi
Una chiusura totale. Resta alto il muro che le autorità egiziane hanno alzato intorno ai quattro uomini dei servizi segreti accusati dalla magistratura italiana di avere sequestrato, torturato ed ucciso Giulio Regeni nel gennaio del 2016. L’ulteriore conferma che la vicenda giudiziaria a Roma si stia avviando su un binario morto, si è avuta nel corso dell’udienza svoltasi ieri davanti al gup di piazzale Clodio: il procedimento è attualmente sospeso, uno stallo legato anche alla decisione della Cassazione che a luglio ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del giudice che ad aprile aveva disposto nuove ricerche degli imputati per notificare gli atti. Ricerche al momento del tutto vane. «Ad oggi non abbiamo ricevuto alcuna risposta dall’autorità egiziana in merito ai quattro imputati – ha detto in aula il capo del dipartimento per gli Affari di Giustizia presso il ministero di via Arenula, Nicola Russo –. L’ultima sollecitazione in ordine di tempo risale al 6 ottobre». Nessun segno di apertura, dunque, tanto che, come affermato dallo stesso Russo, gli egiziani «non hanno risposto neanche alla richiesta di incontro che la ministra Marta Cartabia aveva chiesto nel gennaio scorso». Parole pronunciate davanti ai genitori di Regeni, come sempre presenti in aula. La famiglia è tornata a chiedere un’«adeguata reazione di dignità del nostro governo».
A oltre sei anni di distanza dal ritrovamento, in una strada del Cairo, del corpo del ricercatore Giulio Regeni, sequestrato, torturato e ucciso, il muro di silenzio opposto dalle autorità egiziane alla richiesta di informazioni necessarie, avanzata da Roma, è qualcosa che offende il diritto, che avvelena i rapporti fra due Stati che hanno molti legami, politici, economici e diplomatici, e che impedisce l’accertamento della verità processuale. Di più: si fa beffe della famiglia di Giulio che reclama la possibilità di avere, per quell’efferato delitto, giustizia in un tribunale. In questi anni, al di là di proclami formali, la volontà egiziana di collaborare a far luce sull’assassinio non c’è mai stata: informazioni scarne e contrastanti, la surreale tesi di un incidente stradale, le false voci, i depistaggi...
Poi, quando la procura di Roma – che ha faticato per ricostruire un quadro indiziario che potesse reggere alla prova di un processo – ha ottenuto nel 2021 il rinvio a giudizio per sequestro di persona, lesioni e concorso in omicidio, di quattro ufficiali del servizio segreto interno egiziano, la scarsa collaborazione si è tramutata in ostinato silenzio.
Com’è noto, le garanzie processuali (nel codice italiano e in quelli dei Paesi democratici e civili) prevedono che all’imputato sia notificata l’accusa, per consentirgli di difendersi. Eppure ancora oggi i quattro ufficiali, certo non ignoti al governo egiziano, risultano «irreperibili».
Nessuna risposta dal Cairo. Possibile che non si voglia fornire nemmeno un recapito di un legale a cui notificare gli atti? Così il processo non può tenersi, in Egitto lo sanno e utilizzano quelle garanzie come uno scudo.Un atteggiamento protervo, tanto più se si si pensa – a parti rovesciate – alla vicenda dello studente di Bologna Patrick Zaki, che da oltre due anni e mezzo subisce una detenzione preventiva (prima in carcere poi ai domiciliari) per un processo che i giudici egiziani continuano a rinviare.
Due casi in cui, mutatis mutandis, la possibile mossa di sblocco appare sempre meno di natura "giudiziaria" e sempre più "politico-diplomatica". È una questione di dignità, per Giulio, per Patrick e per il nostro Paese, una duplice invocazione di giustizia che ora interpellerà il governo italiano entrante.