Cop26. Ganapini: dal buco dell'ozono alle emissioni, tutti gli allarme sul clima
Centrale a carbone nella zona industriale di Johannesburg
Il clima dà dei segnali che fanno paura. Non a caso l’Onu nel documento Agenda 2030 indica una deadline fondamentale. O si riesce ad inserire degli elementi di rallentamento e mitigazione, perché sicuramente non si torna indietro, oppure se arriviamo a 450 Ppm (Parti per milione) di C02 in atmosfera, entra in campo una variabile terribilmente angosciante che si chiama "rischio estinzione della specie". E siamo già a 415 Ppm». Lo dice, «senza alcun allarmismo catastrofista ma sulla base della scienza», Walter Ganapini, tra i "guru" dell’ambientalismo scientifico italiano, ricercatore all’Enea, docente universitario, membro onorario del Comitato Scientifico dell’Agenzia europea dell’ambiente, ma anche cofondatore di Legambiente ed ex presidente di Greenpeace Italia. E oggi promotore col Sacro convento di Assisi del Progetto Fra’ sole. Tra i protagonisti della Conferenza di Rio del 1992, ora osserva con attenzione i ragazzi di Fridays for Future. «Ho avuto la fortuna di fare decine di incontri con le scuole, ho partecipato al primo sciopero per il clima due anni fa con migliaia di studenti. Il cambiamento si deve innervare su persone, comunità e imprese per arrivare alle istituzioni. Il fatto che prenda corpo un’aggregazione di giovani che richiedono un cambiamento, non può che destare in me ammirazione e amore. Mi auguro che ce la facciano».
Torniamo a Rio 1992. Quali erano le speranze?
Per la prima volta prendeva corpo un incontro che includeva 150 Stati e si affrontavano i temi di quella che allora si chiamava la compatibilità ambientale del modello di sviluppo prevalente. Fu un’occasione straordinaria di integrazione.
Che cosa non funzionò?
I frutti positivi di Rio furono le convenzioni che resero evidenti le priorità, come buco nell’ozono, clima, emissioni. Rio è una pietra miliare. Purtroppo quello che venne formalizzato non era completo. Doveva essere il punto di partenza per un percorso celere e cadenzato, che portasse ad assumere impegni cogenti e sanzionabili.
E invece è stato troppo lento?
Assolutamente sì. E intanto il clima ci sta dando segnali drammatici. Sapevamo che il problema esisteva. Ma non avremmo mai immaginato potesse prendere l’impressionante andamento attuale. Per questo dobbiamo benedire papa Francesco e l’allora ministra francese dell’ecologia, Ségolène Royal, per gli accordi di Parigi del 2015, un’altra delle pietre miliari, che portarono più di 180 paesi a siglare impegni che hanno elementi di cogenza.
Si è perso troppo tempo?
Il Club di Roma fondato da Aurelio Peccei lanciò dei grandi segnali, purtroppo inascoltati, pubblicando nel 1972 il rapporto del Mit sui limiti della crescita che indicava in 400 Ppm di CO2 un cambiamento climatico irreversibile. Lo abbiamo raggiunto e superato. Ma gli effetti più gravi ricadono su quelli che ne hanno la minore colpa, nelle aree di disuguaglianza e povertà. Un’ingiustizia spaventosa che dovrebbe motivare a intervenire rapidamente.
E il nostro Paese come sta?
Il fatto che l’Italia centromeridionale vada pienamente in una logica di aridificazione e l’Italia centrosettentrionale in una logica di subtropicalizzazione, richiede misure importanti. Per evitare cose già in atto. Sta cambiando la biodiversità a partire da quella acquatica. I pesci hanno una temperatura ottimale di sopravvivenza tra più due e meno due gradi. I pescatori del Trasimeno, sono angosciati perché il lago negli ultimi dieci anni ha aumentato la sua temperatura di 2,2 e ormai è una culla di specie aliene. Il Mediterraneo è a più 1,7 gradi e sono arrivati i barracuda.
Perché è più importante parlare della concentrazione in atmosfera che delle emissioni?
Una molecola di CO2 ha una persistenza di un centinaio di anni e questo è uno dei motivi per cui non vanno solo ridotte le emissioni, ma serve piantare miliardi di alberi in modo che la fotosintesi ci aiuti, anche se si registrano già degli effetti, prodotti dall’aumento della temperatura, sulla sua stessa capacità. Poi ci sono altri gas, come il metano, che hanno un impatto decine e decine di volte superiore a quello della CO2. E le piante nulla possono fare. Ecco perché è necessaria una celerità di decisioni per modificare drasticamente modelli di produzione, di mobilità, di vita. Purtroppo sono solo 9 gli anni che ci rimangono per provare a mettere un freno. Bisogna assolutamente stare al di sotto delle 450 Ppm. L’aumento della concentrazione si traduce in aumento della temperatura. L’obiettivo di più 1,5 gradi è considerato estremamente difficile da rispettare e si comincia a dire "speriamo di restare entro i 2".
Troppo tardi?
No, ma solo se attiviamo le strategie che la Ue ha tradotto nel Green deal, non aggiungendo emissioni alle esistenti, defossilizzando la produzione energetica, incentivando le alternative ai motori termici, riempiendo di verde le città. Lo hanno capito ormai anche i grandi fondi di investimento che disinvestono dal fossile.
E chi si oppone?
Più della metà del Pil mondiale è generato dal controllo delle fonti fossili. È evidente che quei signori detengono una potenza assoluta, compresa l’informazione. E non hanno alcuna attitudine a cedere questo potere. Ma vanno messi in condizione di comprendere che devono celermente cambiare, perché ne va dell’umanità.
Ora c’è chi rilancia il nucleare come fonte energetica pulita.
Richiede tempi di realizzazione e costi incompatibili con Agenda 2030. Oltre al tema drammatico delle scorie. Avevano annunciato 4mila centrali nel mondo, ne sono riusciti a fare 400, quasi tutte ora in dismissione. Tutto ciò non toglie che bisogna lavorare, anche sulla fusione, ma inserirlo come energia verde, per favore no.