Migranti. Gambia-Civitavecchia, l'odissea di Alieu
Un'escursione organizzata dalla Comunità per minori "Il Ponte"
Alieu, 17 anni, viene dal Gambia, da dove è partito a 13 anni, e ha provato tre volte a imbarcarsi in Libia per arrivare in Italia. Ha pagato ogni volta. Ma ogni volta è stato fermato, arrestato e sbattuto in una prigione/lager libica. «È stata un’esperienza molto dolorosa. Mi picchiavano per avere soldi e il cibo era poco e cattivo». Al quarto tentativo Alieu ce l’ha fatta. Era il 16 febbraio, dopo 6 ore di navigazione la barca con 110 persone è stata soccorsa dalla Life Support di Emergency. Porto di sbarco assegnato Civitavecchia, altri 3 giorni di navigazione, dove sono arrivati il 19 febbraio scorso. Lo abbiamo incontrato della sede della Comunità “Il Ponte” di Civitavecchia, fondata 45 anni fa da don Egidio Smacchia, uno dei sacerdoti che per primi capirono il dramma della droga e si rimboccarono le maniche con fatti concreti, operando sulla strada. Dal 2017 don Egidio non c’è più, ma continua la sua opera accanto ai più fragili, dai tossicodipendenti ai giocatori d’azzardo patologici, dalle mamme con minori ai malati di Aids. Non solo per risolvere i problemi ma per prevenirli, soprattutto per i più giovani. Tre strutture residenziali, una di accoglienza per minori con 24 ragazzi, una comunità sempre per minori che ne ospita altri 40, una per donne con minori con 10 mamme con altrettanti figli. E poi l’ultimo sogno di don Egidio, la casa “Formica” inaugurata nel 2018, che segue famiglie e adolescenti, inviati dai servizi sociali e dal tribunale, circa 80 utenti, compreso uno sportello di informazione e cura per l’azzardo, oltre a un ostello gestito da donne che hanno completato il percorso. Davvero una bella realtà.
Da febbraio ospita anche i minori non accompagnati, rispondendo alla richiesta dell’amministrazione comunale dopo gli sbarchi delle navi Ong costrette a raggiungere il porto laziale. «Abbiamo risposto di sì ma abbiamo capito che potevamo fare più della sola accoglienza, cioè costruire con loro per integrarsi». Così agli 8 ragazzi attualmente ospitati (in questi mesi sono stati 17) hanno fatto alfabetizzazione, sport, sia in palestra che in piscina («Alcuni non sanno nuotare»). Con la collaborazione di alcune associazioni sportive. Tante occasioni per fare nuove amicizie, anche come animatori dei campi estivi che “Il Ponte” organizza. «Non c’è nessuna discriminazione». E appena avranno imparato l’italiano si partirà con iniziative di introduzione al lavoro. Alieu l’italiano lo ha già imparato bene, conosce 7 lingue, inglese, francese e vari idiomi africani. «È molto intelligente, lo chiamiamo “capo famiglia” perché non sgarra mai, è il più preciso», ci raccontano Gabriella e Veronica, la prima responsabile di “Formica”, la seconda dell’accoglienza dei minori immigrati.
A seguire i ragazzi è Riccardo che da ospite del “Ponte” come dipendente da sostanze, ora è diventato operatore dell’associazione. «Con loro è stato amore a prima vista. Ormai sono parte di loro, sono il fratello maggiore. Alieu come tutti i ragazzi gambiani è molto educato, rispettano le regole». Ma torniamo a Alieu che con un ottimo italiano ci racconta la sua lunga storia, lunga malgrado la giovane età. Comincia a lavorare a 11 anni come piastrellista. «Tanti bambini lavorano in Gambia, lavorano tutto il giorno ma vengono pagati poco». Così Alieu a 13 anni parte in autostop. Prima tappa il Senegal, dove resta 2 mesi, sempre facendo il piastrellista. Poi riparte. «Ho fatto un lungo viaggio nel deserto, in auto e a piedi. Anche 10 ore di notte per evitare le ore più calde». Arriva così in Libia, dove rimane 3 anni. Prova a partire ma viene bloccato. Si fa 6 mesi di carcere a Zawiya, altri 3 mesi a Tripoli, e un mese e mezzo nuovamente a Zawiya. Violenze, cibo scarso e pessimo, nessuna possibilità di contattare la famiglia. Poi grazie a “un poliziotto arabo”, sale sulla barca giusta, in tutto 110 persone. «I trafficanti sono libici, gli scafisti somali», ci rivela. Per fortuna dopo poche ore viene soccorso da Emergency. «Quando ho visto la nave sono stato molto contento», sorride ricordando quel momento di 10 mesi fa. Poi dopo 3 giorni l’arrivo a Civitavecchia. «Ho chiamato casa da qui, non sentivo la mia famiglia da più di un anno. Ormai pensavano che fossi morto». Ora, assicura, «sono molto contento di essere qui. Voglio restare in Italia » sorride, raccontandoci che fa il tifo per la Roma. Gli chiediamo se ha saputo della strage di Cutro. «L’ho saputo e ho pensato che siamo stati fortunati». Ma non cambierebbe le sue scelte. «Ho provato a partire quattro volte perché la Libia è molto più pericolosa. Sapevo che il viaggio in mare era pericoloso ma in Libia la morte era sicura». Ora invece è tranquillo, e anche la sua famiglia. «Abbiamo sentito la mamma al telefono, ci dice sempre “grazie”, non sono più preoccupati. E noi le diciamo che sono bravi ragazzi», ci raccontano gli operatori. Un clima sereno dopo tante sofferenze, un clima di amicizia. «Tutti i venerdì vanno a pregare ma partecipano anche alle nostre celebrazioni. E alla fine del Ramadan hanno pranzato coi ragazzi italiani, cucinando loro. E alla fine si sono alzati e hanno ringraziato di aver condiviso la festa». E gli italiani li chiamano già con soprannomi: Cous cous, Bax, Sixnine, Giallo e Al, ovviamente Alieu.
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