Il mare, il sole, i pesci hanno divorato lembi di carta e suole di scarpe, foto ricordo e libri di preghiere, teiere e pentole di alluminio. Ma quegli oggetti malconci e stinti sono ancora lì, sopravvivono ai loro proprietari per merito di un gruppo di quindici audaci lampedusani autoctoni o di adozione, che hanno rovistato tra i relitti della speranza, negli indumenti restituiti dalle onde, tra gli scogli. C’è perfino un messaggio nella bottiglia, che custodisce i sogni di una ragazza come tante, partita per cercare la libertà e di cui non si conosce la sorte. «Chiunque troverà questa lettera lo prenderò come marito, secondo rito musulmano» scrive in poche righe tradotte dall’arabo dai ragazzi dell’associazione Askavusa (a piedi scalzi), che custodiscono questo e altri tesori
in due stanzette al centro del paesino di Lampedusa e sognano di farne un museo e un centro studi. «Fu la sceneggiatrice del film di Crialese 'Terraferma' a trovare questa bottiglia tra gli scogli di Linosa a fine 2010», racconta Giacomo Sferlazzo, responsabile dell’associazione che nei giorni dell’emergenza, quando i migranti superavano gli abitanti di Lampedusa, ha moltiplicato gli sforzi per distribuire pasti, offrire la possibilità di una doccia, di un cambio di vestiti, di un posto all’ombra. Anche Wissen Alayet si è unito a loro per un paio di settimane. Il giovane tunisino, da anni regolare in Francia, era arrivato a Lampedusa per cercare il fratello minore partito dalla Tunisia, ma di cui non si avevano più notizie. Ma, giunto sull’isola, è stato investito anche lui dall’emergenza. E s’è messo all’opera, cominciando a fare da interprete. Finché gli è arrivata la ferale notizia: il corpo del fratello trovato a galla davanti alle coste tunisine. Il presentimento è diventato realtà. «Ma era felice di essere stato qui, di essersi sentito utile – continua Sferlazzo –. 'Ho perso un fratello, ma ne ho trovati tanti altri' ci ha detto prima di andare via». Curiosando tra gli oggetti dei migranti, sembra quasi di sfogliare un album di famiglia, composta da popoli diversi, ma desiderosi tutti di vivere in pace, lontano dalla propria terra. Come nel gioco 'l’unica cosa che porteresti sulla Luna', c’è chi custodisce gelosamente una foto col suo bambino, chi quella col proprio vestito tradizionale, chi un pacchetto di tè del Bangladesh, chi dentifricio e brillantina. Tra i rottami delle barche tanti libri del Corano e testi di preghiere cristiane e moltissime scarpe, spaiate, consumate, di bambini, di uomini, di donne, come nei campi di concentramento nazisti. Ma è la parola che trionfa. Quella minuscola e incomprensibile, vergata in amarico e tigrino, arabo e benga-lese, trovata in decine di lettere chiuse in sacchetti di plastica, perfettamente conservate. Un giorno Giacomo Sferlazzo, che candidamente dichiara di essere stato sempre affascinato dalla spazzatura, trova anche una bustina di cuoio cucita. Dentro, avvolti in una plastica rossa, alcuni foglietti. Un ritrovamento che diventa un quadro, come i tanti realizzati con i resti dei barconi, come quello azzurro a forma di pesce su cui i tunisini qualche giorno fa hanno voluto scrivere Dio, come quello dedicato a Santa Maria di Portosalvo, dove anticamente pregavano i musulmani e i cristiani e tutti si sentivano a casa.