Migranti. Orrore nei campi di prigionia. A cinque anni dal memorandum: stupri e torture
Cosa è cambiato nei campi di prigionia libici dalla firma del memorandum del 2 febbraio 2017 e rinnovato nel 2020? Le ultime testimonianze raccolte attraverso gli operatori di "Medici senza frontiere" confermano che gli accordi tra Tripoli e Roma, così come quelli con Bruxelles e Malta, sono la principale fonte di approvigionamento per l’industria della tortura.
«La guardia costiera libica ci ha preso in mare e ci ha portato in una prigione, una prigione di stato», racconta una donna che è riuscita a fuggire ed è stata soccorsa dalla Geo Barents, la nave di Msf.
Sulle tracce dei fuggiaschi si è messo Ricardo Garcia Vilanova, il celebre fotoreporter spagnolo, a lungo sequestrato in Siria e fra l’altro vincitore del World Press Photo nel 2020. Le immagini, pubblicate in esclusiva da Avvenire, raccontano i covi e le storie dei disperati.
Ricardo Garcia Vilanova
I nomi e i principali luoghi di detenzione delle vittime non possono essere rivelati. Le loro parole, però, sono un atto d’accusa che va ascoltato così com’è proferito. Tutti sono passati dai campi di prigionia, come la donna che racconta la filiera degli stupri. «Ci sono molte ragazze lì dentro. Non potevamo vedere l’esterno. Nella prigione c’è sporcizia ovunque. Siccome è una prigione per donne, i poliziotti, le guardie, violentano sempre le ragazze. Ci dicevano: "Se fai sesso con me, ti porto fuori dalla prigione". Molte ragazze accettavano, altre rifiutavano. Non ci nutrivano bene. Non avevamo vestiti, vivevamo nella sporcizia». Una nigeriana sopravvissuta alle sevizie ha confermato: «Prendevano le donne senza dire loro che le avrebbero violentate. Di solito arrivano e indicano solo quelle che sono belle: “Tu e tu, venite con noi”. Così le prendono. Più tardi le ragazze torneranno piangendo. Il mudir (comandante del centro di detenzione, ndr) è andato a violentarle. Alcune donne quando arrivavano le guardie si sdraiavano, piangevano e dicevano che gli faceva male lo stomaco, così il mudir le lasciava stare, sceglieva solo quelle che erano forti e se ne andava».
Ricardo Garcia Vilanova
La Libia oggi come allora «non è un Paese sicuro. Sono ampiamente documentate violazioni sistematiche di convenzioni internazionali sull’asilo e sul rispetto dei diritti umani», si legge in una nota del Centro Astalli, il servizio dei Gesuiti per i rifugiati. «In questi 5 anni – dice padre Camillo Ripamonti – abbiamo ascoltato ogni giorno i racconti di chi è riuscito ad arrivare vivo in Italia, affidandosi ai trafficanti». Per questa ragione al governo italiano «il Centro Astalli chiede di porre fine all’accordo e di investire risorse per evacuare i migranti dalla Libia, come è stato fatto in passato per piccole quote di persone vulnerabili, e prevedere vie di ingresso legali e sicure».
Quando la polizia vuole essere più persuasiva del solito, chiama le bande di criminali. Sono i terribili “Asma Boys”, gang specializzate nello sfruttamento dei migranti. «Ogni volta che cercavamo di scappare – racconta un’altro dei sopravvissuti che vivono nascosti in edifici fatiscenti –, chiamavano gli “Asma boys” per venire a frustarci. Gli Asma sono venuti e ci hanno picchiato con i loro kalashnikov. Guarda le mie mani, vedi le cicatrici. Ho il corpo coperto di questi segni. Ci picchiavano con il kalashnikov, sia che tu sia incinta o che tu abbia un figlio con te. Abbiamo dovuto sopportare tutto questo».
Ricardo Garcia Vilanova
Per sottrarsi le ragazze provano a spaventare gli stupratori mostrandosi colpite da malattie contagiose. «Un medico – racconta un’altra – veniva a curarci. Quando mi chiedeva come stavo, gli dicevo che avevo un’infezione, lui mi dava le medicine e mi rimandava indietro, nella cella. In questo modo, quando mostri alla guardia le tue medicine, capisce che sei malata e ti lascia stare».
Gli operatori di Msf spiegano che «sono due i modi principali per lasciare un centro di detenzione in Libia: la fuga o il pagamento di un riscatto per venire rilasciati». Un minorenne eritreo di 17 anni è stato catturato dalla guardia costiera e rinchiuso in una prigione dove sono ammassate centinaia di persone: «Ci hanno preso e messo nella loro barca. Ci hanno portato a Tripoli, al porto. Da lì, ci hanno messo nella prigione di Gharyan». La riprova di un sistema più simile alla pirateria. Perché quella di Gharyan è una prigione clandestina, per quanto a tutti nota. E lì non dovrebbero finirci i migranti intercettati dalle motovedette. «In quella prigione – racconta il ragazzo – , ci hanno picchiato. Perché? Perché vogliono che diamo dei soldi per poter uscire. Sono rimasto lì per quattro mesi. Tutti i segni che ho vengono da lì, dalla prigione».