Vibo Valentia. I veleni dell'ex fornace a San Calogero: «Qui è morto Soumaila»
Nessun fiore per ricordare che qui è stato ucciso un ragazzo migrante di 29 anni. Nessun cartello per avvertire che qui c’è la più grande discarica abusiva d’Europa di alcune sostanze altamente pericolose. Siamo in località "Tranquilla" di San Calogero. Siamo nella ex fornace dove due settimane fa Antonio Pontoriero ha sparato contro tre braccianti del Mali, uccidendo Soumaila Sacko, sindacalista. Tutto è fermo e bloccato da allora. In realtà fermo e bloccato dal 2009 quando la procura di Vibo Valentia ci trovò 135mila tonnellate di rifiuti industriali.
Sembra una scena da film western. Una città fantasma. L’impianto, abbandonato e in rovina, è come incastrato sotto un’alta parete rocciosa. Da lassù Pontoriero ha preso la mira e ha sparato quattro volte colpendo Soumaila e i suoi amici. «Non per intimidire, ma per uccidere. Con cartucce a pallettoni. E sparando molto bene» dice chi ci accompagna (meglio non venire da soli). Ed è la convinzione dei magistrati che indagano. Il giovane era sul tetto del capannone davanti a noi, quello più basso, più facile da scalare. E purtroppo anche il più vicino al punto dove Pontoriero si era appostato. Un primo capannone, subito all'ingresso dell’area è molto grande e alto, perché contiene le due fornaci dove venivano prodotti soprattutto mattoni. Tutti e due i capannoni sono coperti di lamiere rossastre. Sono proprio quelle che abbiamo visto nella tendopoli/baraccopoli di San Ferdinando dove viveva Soumaila. E dove il colore dominante sta diventando proprio il rossastro.
Anche Soumalia stava recuperando queste lamiere per rinforzare la sua baracca. Sono ancora lì, ammucchiate a terra. Alcune di fianco al capannone, altre vicino all’ingresso dell’ex azienda. Nessuno le ha più portate via, nessuno le ha spostate, nessuno è tornato in questo luogo, diventato luogo di morte. Sembra un’area off limits. In realtà rimane aperta. Niente recinzioni, niente cartelli di avviso. Solo all'ingresso dell’impianto è stata ammucchiata della terra per impedire l’accesso agli autoveicoli. Ma a piedi si passa agevolmente e comunque li tiene lontani solo pochi metri. Eppure, come si dice in termine tecnico, è una scena del crimine. Anzi lo è due volte. Per l’omicidio e per la discarica abusiva. Di certo i migranti non ci vengono più. Troppo rischioso. E anche noi siamo venuti qui tutelati.
Anche perché questo è territorio difficile, a forte controllo ’ndranghetista. Ma anche bellissimo. La ex fornace è in aperta campagna: uliveti e agrumeti costellano un paesaggio ondulato e sullo sfondo anche un lungo filare di cipressi. Eppure proprio qui sono stati scaricati e interrati rifiuti pericolosissimi. Una parte si intravede sotto la vegetazione spontanea cresciuta in questi anni di inattività. Il colore è grigio cenere. E, infatti, sono proprio ceneri di centrali elettriche, piene di metalli pesanti. In parte ammucchiate sul piazzale, in parte interrate. Dovevano servire per produrre mattoni, ma non funzionò. Materiale scadente e pericoloso. Veleni. Che quando piove vengono deviati verso i due corsi d’acqua vicini. Anche perché il terreno è in pendenza. Sul piazzale ci sono mucchi di mattoni, in gran parte spaccati.
Il risultato dell’"affare" sballato e illegale? Di sicuro i veleni sono sempre lì. Per questo l’associazione Libera di Vibo Valentia chiede la bonifica dell’area dell’ex Fornace «per cercare di fermare la guerra dei veleni che è in atto in quei territori e che uccide in silenzio», sottolineando come a San Calogero «si registrano alti tassi di mortalità per cause tumorali». E poi una domanda inquietante. «Forse che Sacko e suoi compagni avevano oltrepassato una linea invalicabile, addentrandosi in un "non luogo" dove è meglio non entrare?». Domanda che emerge con forza girando in questo luogo tra veleni e abbandono. I tre giovani migranti non sapevano dei rifiuti. Ancor meno quelli che hanno vissuto nella casetta all'ingresso dell’azienda, forse l’ex abitazione del custode. Si vedono resti di vita recente. Pagavano qualcuno? È una delle domande che ci portiamo via da questo luogo dove il ricordo di una giovane vittima africana si mischia coi concreti veleni italiani.