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Aiuto al suicidio. Flick: «Il Senato decida. O il fine vita è in balìa dei magistrati»

Angelo Picariello domenica 19 giugno 2022

Giovanni Maria Flick

«Non può essere affidato ai meandri della burocrazia, ai tempi e alla discrezionalità del singolo magistrato, un problema così urgente che riguarda la dignità della vita umana e della morte e tocca il diritto di tutti, in egual misura, a una morte dignitosa». Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick torna sulla necessità che il legislatore intervenga «nel solco delineato dalla sentenza della Corte Costituzionale relativo al caso del dj Fabo», che dichiarava non punibile il suicidio assistito ove ricorressero i criteri che il legislatore del 2017, nella sua autonomia, aveva individuato come presupposti per avere accesso al diritto ad andare incontro alla morte «evitando una sofferenza ritenuta ormai irragionevole e insopportabile ». Nello stesso giorno in cui, giovedì scorso, «il Parlamento recuperava una sua legittimazione in tema di giustizia» approvando il terzo troncone di riforma relativa all’ordinamento giudiziario - «che probabilmente avrebbe dovuto essere il primo in ordine di priorità rispetto agli interventi sul processo penale e civili» - la morte di Federico Carboni, primo caso di accesso al suicidio assistito verificatosi appellandosi alla sentenza 242 del 2019, «porta alla luce un dovere di intervenire non meno stringente per il legislatore. Anche se non ci sono in ballo le pressioni dell’Europa, gli interessi economici legati ai finanziamenti del Pnrr e gli investimenti stranieri in Italia, come per la riforma della giustizia».

Partiamo dalla riforma Cartabia. La ritiene una buona mediazione?

Non entro nel merito. Se dovessi farlo indicherei quali sono i punti in cui forse si poteva scriverla meglio e magari si potrà ancora intervenire, in futuro, con degli aggiustamenti. Prendo solo atto, con soddisfazione, che una volta individuato un punto di equilibrio in Parlamento, il fatto che la magistratura associata non lo abbia giudicato soddisfacente, non ha impedito, come accaduto, che la riforma fosse approvata.

Che cosa ha pesato oltre ai fondi del Pnrr?

Ha pesato sicuramente il calo di consensi registrato dalla magistratura rispetto agli anni in cui sono stato ministro della Giustizia (dal 1996 al 1998), immediatamente seguenti a Tangentopoli. Una consapevolezza che ha indotto il presidente della Repubblica, nel discorso di re-insediamento del 3 febbraio, a indicazioni precise e molto dure sul dovere di riforma, mentre 7 anni fa egli si era limitato a rendere omaggio al ruolo della magistratura, non essendo ancora emerse platealmente le deviazioni 'correntizie' portate alla luce dalle inchieste. È stato interrotto un tabù, in materia di riforma della giustizia, una sorta di diritto di veto rivendicato dalla magistratura. Ma ora la stessa consapevolezza del suo ruolo il Parlamento la deve dimostrare sul fine vita, altrimenti si potrebbe sospettare che abbia influito, sull’approvazione della riforma, il condizionamento esercitato sulla riforma della giustizia dalle richieste dell’economia e della Ue.

Il legislatore che cosa è chiamato a fare?

I paletti posti dalla legge del 2017 e richiamati dalla Consulta li conosciamo. L’esistenza di una infermità irreversibile, non solo in senso biomedico, innanzitutto. Che non vuol dire 'cronica': anche un handicap più o meno lieve può essere irreversibile e non giustifica certo una «soluzione finale»; mentre la precondizione richiesta - che ricalca i criteri previsti per le 'Dat' della legge sul fine vita - è che l’infermità conduca inevitabilmente a una morte considerata prossima. Il secondo criterio è l’intollerabilità della sofferenza, il terzo è la dipendenza permanente da presidi medici, e il quarto, infine, che vi sia una richiesta consapevole del paziente. La Consulta ha stabilito che, essendo presenti i criteri attraverso i quali si può accedere alle Disposizioni del fine-vita, la richiesta dell’intervento di un terzo per essere 'aiutati a morire' non comporti responsabilità del terzo stesso per aver aderito alla richiesta. La Corte ha comunque richiesto una legge che definisca meglio i paletti, le competenze e le procedure.

Ma così non si liberalizza il suicidio assistito?

Solo negli auspici di chi ha come obiettivo proprio la sua depenalizzazione e si oppone all’approvazione della norma già passata alla Camera. Paradossalmente è lo stesso obiettivo al quale puntano gli intransigenti partendo dal principio della sacralità della vita e chiedendo paletti sempre più stringenti, in parte diversi da quelli indicati dalla Corte, allo stesso modo con cui si opponevano alla loro introduzione nella legge sul fine vita.

Il Parlamento deve legiferare sotto dettatura della Corte?

Niente affatto, nel rispetto dei criteri indicati dalla Corte vi sono tante questioni da definire per rendere chiaro ed efficace che l’aiuto al suicidio è tuttora vietato, se non in pochi e limitati casi. Il Parlamento può comunque modificare quei paletti assumendosene la responsabilità, nel rispetto dei principi costituzionali richiamati dalla Corte.

Che novità introduce il primo caso di aiuto al suicidio?

È una novità solo per chi non ha inteso dare ascolto al rischio che in molti avevamo denunciato: che, in assenza di una norma, a decidere sarebbe stata caso per caso la magistratura, con tutti i ritardi e le varianti che questo comporta. Ma ancora più grave è il rischio che ne deriva per la certezza del diritto, o meglio per il diritto di tutti a un trattamento uniforme e coerente, che non dipenda dalla visione pur rispettabile del singolo magistrato.

I cittadini hanno anche pari diritto all’accesso alle cure palliative, finora negato.

Questo è un altro aspetto dello stesso problema: la nostra tendenza a ritardare, a complicare e a omettere fino a quando non ci sia una legge che ci obbliga, con riferimento alle note complicazioni della PA. Per questo ribadisco: la credibilità del Parlamento passa anche per il senso di responsabilità che saprà dimostrare nel dare risposte adeguate e univoche, senza riaprire il vaso di Pandora delle liti di carattere tecnico che troppe volte nascondono contrasti di tipo politico.