Attualità

DIETRO LE SBARRE. «Fine pena mai»? Cresce la protesta

Nello Scavo sabato 1 settembre 2012
​Appena ieri il ministro della Giustizia Paola Severino ha ribadito ad "Avvenire" la volontà di restituire al carcere l’originario ruolo di rieducazione in vista di una piena riabilitazione del detenuto. Per tanti reclusi, però, non c’è alcuna speranza di riammissione nella comunità civile. E non importa che essi lo vogliano oppure no. Il "carcere fino alla morte" esiste. E tocca almeno un migliaio di persone.Sui loro fascicoli c’è scritto "Fine pena anno 9999". Dai boss di primo piano di Cosa nostra alle retrovie della criminalità. Alcuni si sono autoaccusati, hanno ammesso la propria parte di responsabilità. Ma dei complici nessun nome. E non si tratta solo di efferati capiclan. Alle volte di pregiudicati sconosciuti alle cronache. Antonio M. è uno di questi. Dopo l’inchiesta pubblicata da Avvenire lo scorso 12 luglio, ha preso carta e penna e come molti altri ci ha scritto.Antonio è in carcere da quasi trent’anni. Ergastolano ostativo. Vuol dire che a lui non spettano permessi né lavoro esterno né uno sconto di pena per buona condotta. Così è stato deciso al momento della sentenza. La galera la lascerà solo da morto. Non importa che il direttore della casa di reclusione o il giudice di sorveglianza lo considerino un «detenuto modello», anzi «un altro uomo rispetto ad allora». Vent’anni fa s’è beccato l’ergastolo per una rapina con omicidio. Lui ha ammesso la sua parte di colpa, ha ascoltato il verdetto ma non ha coinvolto gli altri due che non sono mai stati acciuffati. «O forse si, ma per altri reati».Trent’anni fa Antonio la pensava in un altro modo. Professava un codice d’onore che gli ha fatto accettare di venire murato vivo. E adesso? «Ammettiamo che io abbia cambiato idea, cosa dovrei fare?». Confessare tutto, magari. «Già, ma pensate alle conseguenze: i miei figli sono cresciuti, si sono sposati e adesso hanno dei bambini. Se anche venissi ammesso al programma di protezione testimoni, tutta la mia famiglia, che con fatica è riuscita a costruirsi una vita normale, onesta, verrebbe travolta: dovrebbero anche loro cambiare identità, residenza, prospettive». E lui quest’altro dramma non vuole farglielo vivere.Qualche giorno prima che infuriasse la polemica sul lavoro extracarcerario concesso a Renato Vallazansca (che con la sua banda si è lasciato alle spalle sei omicidi: quattro poliziotti, un medico e un impiegato di banca), un altro gruppo di ergastolani ha preso carta e penna e ha scritto al nostro giornale una lettera a più mani. Guidati da Carmelo Musumeci, finito in cella appena maggiorenne e che trent’anni dopo si è laureato in giurisprudenza senza mai allontanarsi dalla prigione, sostengono che «un Paese come l’Italia non può farsi promotore di moratorie contro la pena di morte solo per una questione di immagine civile e democratica, quando, per contro, nel proprio ordinamento giuridico vi è "normativizzata" una pena come l’ergastolo ostativo».I firmatari sono tutti "ostativi" reclusi a Spoleto. Chiedono di cancellare dal nostro ordinamento «quel "fine pena mai" per essere sostituito da un "fine pena certo"». Solo in questo modo «una società civile e uno Stato di diritto – sostengono – potrebbe garantire quella seconda possibilità che ogni persona merita». Da anni alcune associazioni di volontariato, a partire dalla Comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, si adoperano per aprire un dibattito sereno e non ideologico su un tema così controverso. Dietro le sbarre, intanto, restano rinchiuse anche le speranze di redenzione civile di tanti uomini. Condannati a marcire in cella. Talmente invisibili che neanche al Ministero della Giustizia sanno dire con esattezza quanti siano davvero gli "ostativi".