L’allarme. Fentanyl, così i consumi stanno crescendo. «L’Europa è in vigile allerta»
Analisi in laboratorio di fiale di fentanyl
Le prime spie d’allarme si erano accese già l’anno scorso. Nella relazione annuale al parlamento sulle tossicodipendenze in Italia, il dipartimento per le politiche antidroga di Palazzo Chigi aveva rilevato la presenza del fentanyl in 29 delle 33 città monitorate dalla ricerca. Piccole dosi, con pochissimi casi di dipendenza: 5 in tutto i soggetti presi in carico dai servizi sanitari competenti. Di questi casi, però, 4 riguardavano pazienti nuovi. In termini puramente percentuali, significa un aumento dell’80% nel giro di un anno. Un dato da non sottovalutare.
Ieri Avvenire ha pubblicato la circolare del ministero della Salute che a inizio febbraio ha messo in guardia sulla circolazione in Italia del temibile oppioide sintetico (cioè interamente ricreato in laboratorio tramite agenti chimici, i cosiddetti precursori). Si è registrato un aumento di furti di farmaci che lo contengono – si tratterebbe in particolare di un “colpo”, dal bottino ingente – quindi le forze dell’ordine sono state invitate ad alzare le antenne, così come ospedali e servizi di ambulanza sono stati invitati a dotarsi di naloxone, l’antidoto che si somministra in caso di overdose da fentanyl. In un Paese cronicamente poco previdente come l’Italia, la nota del ministero (classificata con grado 3, “allerta massima”) non può passare inosservata.
Due indizi non fanno una prova, ma bastano per alzare gli argini di fronte al pericolo di un diffuso e massiccio abuso di medicinali che ha già sommerso l’America nell’ultimo decennio, prima con l’Oxycontin prescritto “allegramente” dai medici di base (su pressing della casa farmaceutica produttrice) e poi, appunto, con il fentanyl. Quasi una piaga biblica, che solo nel 2022 ha mietuto più di 100 mila morti. L’Italia e l’Europa non sono l’America, ma in questo caso meglio evitare anche solo di imitarla.
«Si tratta di due situazioni molto diverse – chiarisce Angela Me, direttrice delle ricerche dell’Unodc, l’agenzia Onu che contrasta crimine organizzato e narcotraffico – negli Usa c’è un vero e proprio traffico gestito dai cartelli messicani, che non rubano i farmaci ma producono direttamente il fentanyl, utilizzando i precursori chimici provenienti dall’Asia. Il fentanyl è usato per tagliare quasi tutte le droghe in circolazione. In questo modo l’eroina non basta più: i cartelli hanno creato la domanda di un nuovo prodotto, molto più potente. In Europa tutto questo non si vede ancora. C’è uno stato di vigile allerta, per ora ci sono state solo situazioni sporadiche. Oltre ai furti segnalati in Italia, circa tre anni fa ci fu una banda in Svezia che iniziò a produrre fentanyl. Immediatamente si registrò un picco di overdosi. Ma la polizia fu brava a intervenire subito: sgominò il gruppo e spense il focolaio. Di recente in Nord Irlanda è spuntato anche l’abuso di nitazenes, antidolorifico simile al fentanyl». Definito “super droga di strada” dai media di Belfast, ha provocato negli ultimi mesi un’impennata di morti tra i giovani.
La grande incognita ora è legata all’Afghanistan: dopo il ritorno al potere, i talebani hanno messo al bando l’oppio, e dai primi riscontri la produzione (da Kabul arriva l’80% dell’eroina mondiale) sembra drasticamente calata. Come accadde già nel 2001. Poi ci fu l’11 settembre, e la produzione – nonostante l’invasione occidentale – riprese a salire fino a toccare livelli record. Stavolta potrebbe andare diversamente e gli equilibri del mercato mondiale del narcotraffico potrebbero spostarsi.
«Bisognerà attendere il raccolto di quest’anno, che si concluderà a giugno – osserva Me -. Se il crollo sarà confermato, per gli oppiodi sintetici potrebbero aprirsi ulteriori spazi».
Anche perché per produrli non sono necessari grandi sforzi logistici. «Non servono più i container, come nel caso del trasporto di cocaina. Basti pensare che i primi produttori abusivi di fentanyl in America producevano centinaia di migliaia di dosi utilizzando precursori ordinati in Cina e ricevuti per posta».
Proprio sul fronte dei precursori è in atto una guerra non dichiarata con la Cina. «Secondo alcuni analisti, Pechino sarebbe consapevole della situazione di sofferenza mentale che c’è in Occidente - spiega Sandro Calvani, ex direttore Unicri (l’agenzia Onu che studia il crimine) e ora docente di politiche dello sviluppo sostenibile in varie università asiatiche– ma non farebbe nulla per fermare o limitare queste spedizioni. Gli Usa tuttavia sbagliano se pensano di risolvere il problema con sanzioni e ritorsioni. Così facendo si finisce solo al muro contro muro. Inasprendo ulteriormente quella che il New York Times in questi giorni ha definito “economia della guerra di tutti su tutto”, che lascia sul terreno uno scenario desolante, fatto di relitti sociali. La logica del conflitto amplia i budget e genera fatturati - pensiamo alla guerra al terrorismo costata agli Usa la cifra record di 8 mila miliardi di dollari -, ma provoca ansia, sofferenza e infelicità crescenti: di fronte alla “policrisi” globale che stiamo attraversando, il nostro cervello cerca rifugio nella soddisfazione chimica».
Come uscirne? «Abbandonando la logica del tutti contro tutti per andare in direzione opposta: tutti “con” tutti, collaborando in nome della salvezza del pianeta, l’unico che abbiamo. Perché altrimenti poi è inutile prendersela con l’Onu. È come in un condominio: se tutti litigano, e se chi sta nell’attico conta di più di chi vive a piano terra, non si può dare la colpa all’amministratore perché non ci si mette d’accordo sulla riparazione del tetto».