Antonio Fazio sta riflettendo sulla crisi dell’euro. Non è una novità per un ex banchiere centrale che, negli anni Novanta, fu indicato come «l’euroscettico» (per aver assunto atteggiamenti critici sul processo di unificazione della moneta). E oggi che i fatti gli stanno dando ragione, lui squarcia un velo spostando l’attenzione dai profili prettamente monetari a quelli demografici. «È vero, la crisi delle nascite nel Vecchio Continente è una causa troppo spesso sottaciuta di questa recessione. Siamo incuranti del fatto che una tendenza della popolazione come quella in atto sembra condannarci nel giro di qualche generazione a una sorta di eutanasia sociale», afferma oggi l’ex governatore della Banca d’Italia.Fazio è convinto (e lo afferma in un volumetto da poco dato alle stampe - vedi sopra -, dopo averlo già enunciato nelle sue analisi ai tempi di Palazzo Koch) che il rapporto tra crescita e struttura della popolazione è una variabile essenziale nello spiegare l’evoluzione economica di medio-lungo termine. «Nel secolo scorso – argomenta Fazio nello studio affacciato su via del Corso – ci sono state prese di posizione, anche da parte di seri studiosi - ma molte di orecchianti e politici - preoccupati dall’eccessivo aumento della popolazione. Eppure, i dati macro-economici degli ultimi due secoli hanno ampiamente smentito questo tipo di conclusioni». È una riflessione che, d’altronde, affonda le sue radici in uno dei padri del pensiero economico: «Adam Smith dice: "
the ability and dexterity of men" sono alla base della ricchezza delle nazioni – ricorda l’ex capo di Via Nazionale – . L’economia, intesa come capacità di organizzare la società, e il suo sviluppo sono dunque azioni dell’uomo. Benedetto XVI nella "Caritas in Veritate" ha fatto un passo avanti, di rilievo: ha affermato che i valori cristiani possono, devono influenzare le scelte per gli investimenti, orientandoli a realizzare un umanesimo integrale».Da economista qual è, Fazio è abituato a partire dai dati prima di tutto. A livello mondiale, oggi, siamo 7 miliardi di individui; secondo le ultime proiezioni (2011) della Divisione dell’Onu per la popolazione nel 2050 saremo 9,3 miliardi; nel 2100, a 10,1 miliardi, concentrati però soprattutto in Asia e Africa. Per l’Europa i numeri si riducono: i 510 milioni del 2000 salirebbero nel 2100 solo a 670 milioni. Con un rallentamento che dipende dall’aumento dell’età media. «Una popolazione più invecchiata comporta conseguenze economiche e sociali di rilievo, alcune positive, altre negative e di non poco conto», analizza Fazio che invita a guardare agli ultimi 2-3 secoli. Nel XIX secolo la crescita del prodotto lordo mondiale è stata all’1,9% in media l’anno. Nettamente al di sopra dello 0,54% della popolazione. E la crescita del Pil pro capite annuo fu di oltre l’1,3%, mentre la disponibilità di beni e servizi aumentò di 5-6 volte complessivamente e di 3,8 volte pro capite, ma con gravi problemi di distribuzione.La crescita della popolazione è continuata ancora più rapida nel XX secolo, nella seconda metà del quale l’aumento del Pil mondiale è schizzato al 4% annuo, contro il +1,8% della popolazione. «Constatata questa correlazione positiva in periodi molto lunghi – ragiona Fazio – c’è da chiedersi allora cosa si trova veramente alla base dello sviluppo. Analisi più approfondite hanno iniziato a mettere in luce una serie di stimoli positivi che la dinamica della popolazione e l’allungamento della vita media esercitano sul reddito prodotto». Sullo sfondo, tuttavia, lo sviluppo capitalistico non ha cancellato un problema: «La cattiva distribuzione della ricchezza, in particolare della nuova ricchezza. Occorrono anni e talora decenni – invita a considerare Fazio – affinché l’introduzione di nuove tecnologie e moderni metodi di produzione, progressi dei quali una parte della popolazione si avvantaggia immediatamente, si diffondano a vantaggio di tutti. E occorrono anche politiche economiche adeguate, purtroppo sempre carenti. È ormai accettata opinione che la produzione di ricchezza dipenda essenzialmente dal capitale umano. La presenza elevata di giovani e l’allungamento della vita media ne costituiscono la "materia di base". E al riguardo è essenziale l’istruzione e la formazione delle nuove generazioni».A preoccupare l’ex banchiere centrale sono però soprattutto i dati europei ed italiani. Nel Continente il tasso di crescita della popolazione è particolarmente basso (0,14% all’anno nel 2007), peraltro sostenuto dall’immigrazione. Una tendenza negativa che discende dal basso tasso di fertilità femminile. «In 24 dei 26 Stati europei tale indice non raggiunge l’equilibrio di 2 nati per donna – riprende Fazio –. In Italia è di 1,4 (siamo al posto 203 nel mondo, al pari di Serbia e Ungheria,
ndr). E in popolazioni invecchiate la domanda di beni si sposta così soprattutto verso i servizi di assistenza, a bassa crescita di produttività, è meno vivace la domanda per prodotti innovativi. Il basso livello di natalità deprime poi la propensione al risparmio, come risulta dalle ricerche fatte da Franco Modigliani. Minor risparmio significa minori mezzi per gli investimenti. Se non ci sono attese di sviluppo della popolazione, quindi di potenziali acquirenti, gli imprenditori non affrontano il rischio di nuovi investimenti. L’economia ristagna».È una situazione che assume tinte ancor più fosche in Italia: da noi, argomenta Fazio, «da ogni donna nascono in media 0,7 donne. Se non ci saranno aumenti nei prossimi decenni per l’indice di fertilità, nel corso di due generazioni il numero di donne italiane - e quindi degli italiani - sarà dimezzato. Va menzionato infine, ma con la massima forza, anche il negativo impatto che in particolare in Italia ha avuto il ricorso all’aborto volontario». È un quadro che induce l’uomo che una volta, dalla sua posizione, orientava i processi economici a rivolgere un interrogativo di fondo: «Quale programmazione a lungo termine, dal punto di vista economico, ma anche politico e sociale, può incoraggiare una tale prospettiva demografica? Tutte le iniziative tendono a concentrarsi su un orizzonte breve. Ma è necessaria una politica di integrazione degli immigrati. E sullo sfondo rimane il grave problema delle politiche sociali a favore delle famiglie: rinunciarvi sarebbe un’autorete. Non si possono studiare storia ed economia dimenticando un fattore determinante come l’evoluzione della popolazione. Farlo sarebbe reagire come l’occhio dell’uccello notturno che non vede il sole».