L'analisi. Fazio: «Il deficit a 1,6% non riduce il debito, serve politica espansiva»
Premette di non entrare (per ora) nel merito della qualità della composizione della manovra. Ma sulle linee di macro-economia che la ispirano Antonio Fazio ne ha di cose da dire. Il già governatore della Banca d’Italia (dal ’93 e fino a dicembre 2005), keynesiano nel dna, parte da un assioma: è «un errore logico» pensare che con un deficit italiano ridotto all’1,6% si possa ridurre il debito pubblico. Il problema, insomma, non sta nel 2,4%. Come sempre Fazio, il governatore 'euroscettico' (pur essendo stato lui, per «spirito di servizio », a lavorare per l’ingresso dell’Italia nell’euro), contesta la linea di Bruxelles e ribalta la teoria economica dominante, quella basata sull’'ortodossia' dell’austerità.
Il banchiere di Alvito ha concesso una lunga intervista alla rivista dell’associazione delle banche popolari per commemorare Ezio Tarantelli, l’economista del lavoro ucciso nel 1985 dalle Br con cui collaborò per un periodo in Bankitalia. E proprio su occupazione e povertà, temi al centro del dibattito in queste settimane, Fazio eleva un forte richiamo: «La povertà non dipende dalle fasi lunari, ma dalle politiche economiche. Ma, a parte ciò che attiene l’inflazione, per il resto dov’è la politica economica dell’area dell’euro?».
Una domanda retorica che correda con i dati di un «impressionante» confronto: «L’economia Usa, già nel 2017, era 12/13 punti percentuali sopra il livello del 2008. La Germania, nello stesso tempo, è cresciuta dell’8-9%. I Paesi Piigs, fra cui l’Italia, sono invece ancora 5 punti sotto il livello del 2008». Per Fazio è la prova che qualcosa non va, in questa Europa. La dottrina europea non ha dato giovamenti all’Italia: «È una lezione che non vogliono capire, mi sembra che in troppi facciano 'orecchie da mercante'. È bene ricordare che negli ultimi 10-15 anni – è la sua analisi – i governi hanno sempre osservato le indicazioni della Commissione. Malgrado questo, il rapporto debito pubblico/Pil è salito notevolmente. Se il disavanzo si riduce dal 2,4 all’1,6%, il debito cala solo di uno 0,6% (meno 0,8 diviso 1,3 che è il rapporto tra debito e Pil). Nel contempo, però, il reddito nazionale cresce di meno, ricevendo un impatto negativo dello 0,8% dal disavanzo che viene ridotto. In definitiva, quando il rapporto debito/Pil è elevato, il tentativo di ridurre tale rapporto attraverso la riduzione del disavanzo non solo non è efficace, ma addirittura controproducente». Tant’è che la crescita è rimasta bassa.
Ancora una volta, poi, l’ex 'nr. 1' di Via Nazionale ripercorre gli errori commessi nella costruzione, incompleta, dell’euro: «Quando, avendo ceduto sovranità sulla politica monetaria, si perde lo strumento del cambio, bisognerebbe conservare un adeguato spazio di manovra sugli altri due strumenti di politica economica: bilancio pubblico e costo del lavoro. Se siamo legati anche sul bilancio pubblico – prosegue nel ragionamento – e non si agisce sul costo del lavoro, resta ben poco da fare». Quanto al debito pubblico, il suo profilo va certamente seguito con attenzione, ma non deve diventare un’ossessione perché «all’elevato debito si affianca un indebitamento delle famiglie relativamente basso rispetto agli altri Stati europei. È allora naturale che convenga investire, più che altrove, il risparmio nel debito pubblico. Ho provato a spiegarlo più volte in sede internazionale, ma sono stato poco ascoltato».
Ecco che, allora, Fazio torna a ripetere ancora una volta che bisogna «agire sui fattori della produttività», da noi «troppo bassa» in presenza di un costo del lavoro troppo alto. Dopo aver assicurato nell’eurozona la stabilità dei prezzi - «obiettivo di primaria importanza» - grazie alle politiche adottate dalla Bce, adesso «c’è un altro obiettivo, ancora più importante: l’occupazione. Bisogna puntare alla piena occupazione che generalmente – prosegue – significa disoccupazione intorno al 4%, come negli Stati Uniti ». Da qui ne deriva un giudizio secco sull’euro: «È, e resta, un obiettivo intermedio la cui stabilità deve servire a garantire, strumentalmente, gli altri obiettivi», invece «lo stato dell’occupazione giovanile in Italia rimane 'pietoso'».
Dopo aver ricordato che l’euro era stato impostato confidando in una crescita dell’area vicina al 3% annuo, Fazio sottolinea che «aumenti del Pil tra l’1 e l’1,5% sono del tutto insoddisfacenti, allorché si viene da uno stato di profonda depressione», come oggi. «Bisognerebbe osare e percorrere strade che, senza mettere in discussione la moneta unica, rimettano al centro la politica economica », puntualizza l’ex governatore. Che ricorda, riguardo ai salari, la sua preferenza di sempre per un sistema di 'gabbie salariali', per favorire la ripresa del lavoro al Sud, e insiste in particolare sull’esigenza di agire sugli investimenti. L’ideale, a suo avviso «economicamente giustirficato», sarebbe «non includerli nel disavanzo», come si è tentato invano di fare già dal 2000. Anche perché, evidenzia per spegnere i timori del ritorno a una 'spesa facile', «investimento infrastrutturale non significa, per forza di cose, ricorso al finanziamento pubblico: c’è, oggi nel mondo, grande abbondanza di potenziali finanziamenti (anche privati, ndr) che potrebbero essere attivati per progetti di pubblica utilità», ma in ogni caso «occorre una forte iniziativa pubblica».
E, al riguardo, Fazio dà un sostegno al progetto elaborato dal ministro degli Affari europei, che permetterebbe all’Italia di mettere in campo una cifra attorno ai 50 miliardi: «La strategia vincente deve essere quella delineata dal professor Paolo Savona». L’ultimo capitolo Fazio lo dedica alla vigilanza bancaria: «In Europa così come è non funziona, ridotta a continue immissioni di regole e richieste di ricapitalizzazioni. Per questo potrebbe e dovrebbe tornare a essere attività degli stati nazionali, a livello europeo dovrebbe restare il coordinamento». E conclude con un paragone efficace: la vigilanza alla Bce è «come se la salute delle persone fosse affidata, invece che ai medici di base, ai ministri della Sanità che decidono loro, con regole e leggi, medicina e dose per ogni patologia. E, in caso di malattia, obbligano il paziente a curarsi con la medicina stabilita».