Afghanistan. Fassino: "Disponibili ad accogliere. Nuova strategia per la democrazia"
Piero Fassino
Piero Fassino, presidente della commissione Affari esteri della Camera: quale è la priorità del governo italiano in queste ore?
La priorità delle priorità è portare a termine l’evacuazione avviata. Dobbiamo mettere in sicurezza il personale italiano, i collaboratori afghani che direttamente e indirettamente hanno lavorato con noi, gli operatori delle ong, delle associazioni di volontariato e dei movimenti civici, équipe mediche e della cooperazione. E anche evacuare afghani che ci risultino a rischio di ritorsioni o vendette o persecuzioni. Stiamo cercando di evacuare quante più persone. Dobbiamo essere tutti concentrati su questo obiettivo, senza polemiche e sostenendo l’impegno straordinario del ministero degli Esteri e della Difesa.
Non sono una priorità anche i corridoi umanitari?
Lo sono, senza dubbi. Dobbiamo essere disponibili a salvare e accogliere. Ed è un bel segnale che molte amministrazioni locali abbiano dato subito disponibilità. Arriveranno nelle prossime ore con i nostri aerei militari molte famiglie afghane. Mettiamo in campo subito una generosa accoglienza dando così concreta dimostrazione di solidarietà. Fac- ciamo quel che facemmo di fronte al dramma cileno, quando accogliemmo in tanti Comuni profughi ed esuli. Quanto ai corridoi umanitari, sono una giusta sollecitazione, ma non si fanno senza l’autorizzazione delle autorità del territorio da cui si parte. Bisogna lavorare per capire quando e per quanti sia fattibile e in quali tempi.
Cosa significa?
Non stiamo operando in un terreno gestito da noi. Lì ora il potere ce l’hanno i talebani e per fare i corridoi umanitari occorre negoziare con loro. E dobbiamo avere la garanzia che i nominativi delle persone da trasferire non sia sindacabi- le. Non può accadere che se forniamo una lista di 100 nomi 50 vengono autorizzati e 50 no. Perché da un minuto dopo i 50 respinti sono a rischio della vita. Devono poter partire senza ostacoli tutti quelli che chiediamo di imbarcare, servono negoziati impegnativi.
Quindi le istituzioni europee e italiane devono trattare con i talebani?
Dipende da che governo si formerà a Kabul, se solo di talebani o di coalizione più larga. E dobbiamo anche capire chi sono i talebani oggi. Se sono i talebani di 20 anni fa, che impediscono la scolarizzazione delle donne, tagliano le mani a chi ruba, lapidano le presunte adultere, umiliano le donne, allora dovremo assumere posizioni rigorosissime e intransigenti. Se daranno seguito concreto agli annunci 'moderati' delle ultime ore, dovremo valutare se e come interloquire.
Con quali segnali i talebani potrebbero rendersi interlocutori?
Ad esempio se formeranno un governo di unità nazionale non composto solo da talebani. Se saranno rispettati i diritti delle donne. Se giornalisti e insegnanti non verranno oppressi. Se nessuno verrà perseguitato per aver sostenuto il governo precedente o fatto parte dell’esercito afghano. E se nessuna copertura o ospitalità verrà data a organizzazioni terroristiche.
Tutto ciò non andava ottenuto prima, con i militari ancora sul campo?
Infatti è questo l’errore tragico dell’accordo di Doha. Un negoziato sviluppato in modo unilaterale dagli Usa e riconoscendo una sola parte, i talebani combattenti, estromettendo il governo di Kabul. È quello l’errore capitale che ha portato alle scene di questi giorni. Il negoziato doveva essere con tutte le parti afghane per giungere ad un governo di unità nazionale. E il ritiro delle truppe doveva iniziare dopo il raggiungimento di questo obiettivo, procedendo in modo progressivo e graduale. L’Europa doveva assumere un atteggiamento molto più rigoroso con gli Usa. Dovevamo pretendere di essere parte di quei negoziati e lì operare per una soluzione di pacificazione vera e verificabile.
Potevamo non accodarci agli Usa e restare sul terreno?
Impossibile e inutile. I nostri contingenti erano numericamente molto piccoli rispetto a quello americano. E dall’intelligence alla logistica strategica tutto era nelle loro mani. Evacuare era l’unica scelta possibile.
E ora? Come si affronta questo caos?
Serve ricostruire pazientemente quel multilateralismo che Trump ha dissestato. Il fine di promuovere diritti e democrazia nel mondo non deve essere archiviato, ma vanno radicalmente ripensati gli strumenti. L’intervento militare, abbiamo visto, ha dei limiti. Le sanzioni sono applicate solo dall’Occidente e alla lunga danneggiano più chi le vara che chi le subisce. La moral suasion ha bisogno di qualcuno dall’altra parte che voglia farsi persuadere. Dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo, deve essere questo il grande dibattito dei prossimi mesi tra i Paesi occidentali: non possiamo rinunciare a batterci perché i diritti umani e civili siano riconosciuti sotto ogni cielo, ma abbiamo bisogno di ridefinire con quali strumenti.
Biden può indicare una strada?
Il presidente Usa mi lascia perplesso quando dice che è difficile spiegare agli americani perché impegnarsi in una 'causa lontana'. Allora lo potrebbero dire anche gli italiani, i francesi, gli spagnoli e quanti sono impegnati in missioni internazionali. Possiamo dire che d’ora in poi ognuno pensa solo ai problemi di casa propria? Se si fa questa scelta, bisogna poi sopportarne tutte le conseguenze in termini di instabilità, terrorismo, guerre. Biden ha annunciato per il prossimo 9 dicembre un grande incontro internazionale sulla democrazia e i diritti. Dopo la vicenda afghana non basteranno affermazioni di principio.
Intanto quali conseguenze possono avere gli eventi afghani sulla regione?
L’Afghanistan è incastonato in un regione problematica, confinando con Cina, Iran, le turbolenti repubbliche euroasiatiche e il Pakistan. Cina e Russia hanno già manifestato disponibilità a collaborare con le nuove autorità di Kabul. Il Pakistan, da sempre 'fratello maggiore' dell’Afghanistan, continuerà ad avere un’influenza. Come si muoveranno i talebani nei rapporti con l’Iran o nei delicati equilibri del vicino Oriente? Anche da questo dipenderà l’atteggiamento occidentale.
Cambierà qualcosa per le missioni militari italiane?
Si dovrà tornare a distinguere nettamente tra missioni di peacekeeping cioè a garanzia di accordi di pace, come in Libano e nei Balcani - e missioni di peace enforcing in situazioni di guerra aperta, valutandone bene ogni volta la portata. ©