Attualità

ACCOGLIENZA. «Facciamo casa servendo i minori»

Lucia Bellaspiga venerdì 2 settembre 2011
Misericordare. Un verbo che non esiste, in ita­liano. Ma che in via Ru­tilia 28, periferia sud di Milano, è linguaggio comune e quotidiano: «Sant’Agostino parlava di miseris cor dare, dare il cuore ai sofferenti», sorride chi ci spalanca il portone. E così spiega perché la grande casa in cui abita si chiama 'Mater Misericordiae', anche se non è un monastero e nemmeno un istituto: l’aspetto è quello del­le antiche 'corti' lombarde, con un grande cortile interno coper­to d’erba sul quale si affacciano i ballatoi e gli appartamenti, ma tutto profuma ancora di nuovo. «È stata costruita un anno fa. Ci viviamo in cinque famiglie, con la stessa motivazione, l’accoglienza – dice Stefania Croci, madre di quattro figli naturali, ma anche di altre due bambi­ne accolte in casa – . Siamo arrivati al­la spicciolata, ade­rendo con tempi e modi diversi al pro­getto, e così abbia­mo creato questo 'condominio' in cui l’affido dei mi­nori è il collante che ci tiene insieme e il senso del nostro fare comunità». Nella calda estate milanese il cortile di via Rutilia risuona di strilli e risate, mentre un gran numero di bambini gio­ca sul prato e si spruzza l’acqua dalla piscina gonfiabile. Sui bal­latoi basta che si affacci una mam­ma per tutti, a dare un’occhiata, e già questo dà la misura di cosa significhi «avere sempre una por­ta cui bussare e sapere che troverò una voce amica», come spiega Ma­ria Capetti, 46 anni, altra inqui­lina dello strano condominio, madre di quattro figli ma anche degli altri due che attualmente ha in affido. «Noi infatti non siamo solo qui per accogliere, ma anche per essere accolti», sorride. E ca­pisci che la chiave è proprio que­sta: qui nessuno si pone dalla par­te dei 'buoni', qui chi dà riceve, «perché di accoglienza si vive tut­ti, indistintamente». Solo un anno fa le loro esistenze erano molto diverse. Stefania e Paolo Croci, 38 e 40 anni, vive­vano tranquilli a Lambrate e ave­vano appena rinnovato la loro ca­sa, dove era da poco venuta al mondo la loro quarta piccolina, mentre Maria e Amedeo Capetti, 46 e 47, medici, stavano in zona Città Studi con i quattro figli. Sparsi per la città erano pure gli altri inquilini, Antonella e Dino Chiello con le loro due bambine, Cecilia e Giulio Senes con i tre maschietti, Romana e Pietro Dot­tori e i loro tre figli. A farli in­contrare, la corte di via Rutilia e l’'Associazione Fraternità', una realtà sorta 25 anni or sono vici­no a Crema dall’intuizione di don Mauro Inzoli, e oggi arrivata ad a­vere oltre cinquecento iscritti e seicento minori accolti. È così che in via Rutilia capitano cose dell’'altro' mondo, ad e­sempio che per cinque coppie di genitori ci siano più di trenta fi­gli tra 'veri' e in affido, e al col­po d’occhio ogni differenza sfugga. Qui tutto è extra-large: gran­di i frigoriferi, a schiera i lettini, spaziose le stanze, enormi i tavo­li, perché ai pasti le bocche da nu­trire sono tante, e ancora più so­no le chiacchiere che rendono al­legra l’atmosfera. Lungo i balla­toi che danno sul cortile bambo­le, pattini e tricicli 'parlano' di bambini che sono al doposcuola o riposano all’ombra, lontani dal­la calura. Alcuni poi hanno qual­che disabilità, per cui sono a fa­re riabilitazione, o dallo psicolo­go, o dal logopedista a seconda dei bisogni, ma entro sera saran­no tutti qua a riempire le stanze delle loro voci. Così come i cin­que papà, gli unici che di giorno vanno a lavorare: «Anche questo ci accomuna – testimonia Maria, pediatra –, per scelta noi madri la­sciamo il lavoro, altrimenti non potremmo occuparci dei figli». Prima di approda­re in via Rutilia, la sua famiglia aveva già avviato una sto­ria di affido con un bellissimo bimbo disabile, («tu sei di­versamente abile?», gli ha chiesto senza malizia un compa­gno d’asilo, «no, io sono capato», han­dicappato, gli ha ri­sposto lui, e in ca­sa ne ridono anco­ra...), ma in solitudine non era la stessa cosa. Poi, grazie a don Mau­ro e all’Associazione Fraternità, «abbiamo scoperto che tutto que­sto poteva essere vissuto in co­munione e quindi moltiplicato». In questo caseggiato, insomma, il segno non è più, il segno è per: non si addiziona, si moltiplica. È quello che intendeva don Inzoli quando, a Stefania e Paolo che sentivano nascere in sé il deside­rio vago di vivere in comunità con altre coppie, oppose una provo­cazione: «Non basta mettersi in­sieme. La vita comunitaria se non ha uno scopo comune non reg­ge ». E quello scopo ha assunto i volti dei piccoli Antonio, Clarita, Luciana, Giuseppe, Mauro, Alice, ma anche gli occhi di Alessandra, ragazza madre di tre bimbi, ri­masta senza casa dopo uno sfrat­to ed accolta anche lei come una figlia. O gli occhi della piccola Stella, arrivata a Natale e riparti­ta ad aprile verso una nuova vita: abbandonata alla nascita in o­spedale, a 'Mater Misericordiae' è diventata la figlia di tutti. Poi il distacco, come accade per ogni affido. «Ogni volta è uno strappo doloroso, ma noi sappiamo che è per il loro bene - mette già in conto Paolo Croci, impiegato, nel frattempo tornato dal lavoro - e lo accettiamo fin dall’inizio. Pri­ma ero molto restio a seguire la scelta di mia moglie, poi ho ca­pito che nella presenza dell’altro avrei trovato i segni del Mistero. L’importante è lasciar fare a Cri­sto, affidarsi senza mettere limi­ti e solo alla fine contemplare quanto avviene qui tutti i giorni, allora ti rendi conto che c’è l’o­pera di Qualcun altro, se no sa­rebbe impossibile per noi...». Nessuna promessa di paradiso, i problemi ci sono e magari ver­rebbe da gettare la spugna, senza contare che «i nostri figli a volte vorrebbero essere nati in una fa­miglia 'normale'», raccontano ri­dendo i genitori. «Quando senti tua figlia che dice esasperata 'ti abbiamo dato tutto, la camera, i vestiti, ora vuoi anche la mia bambola?', sai che non è suo il 'sì' che abbiamo detto ed è giu­sto che si sfoghi...». Anche perché quella stessa figlia quando poi è a scuola parla di «mia sorella», non di una bimba in affido, e questo le resterà dentro per la vi­ta. «Io è guardando i miei geni­tori che ho imparato da piccolo a farmi carico delle persone», con­ferma Amedeo Capetti, tornato a sera dall’ospedale Sacco, dov’è in­fettivologo. In casa sua nei mesi sono passati dieci 'figli', com­presa la madre dei tre bimbi, ma come vengono poi se ne vanno. «È solo la conferma che la bel­lezza prosegue – assicura sereno –, c’è chi semina e chi raccoglie, e i frutti sono di tutti».